Politica

Schiaffo da Merkel-Hollande: Renzi escluso dal vertice Ue

Germania e Francia hanno già scaricato il premier E lui balbetta: «L'austerity fa male, Obama insegna»

Adieu, Matteò. Aufwiedersen, chissà. Come cantava Charles Aznavour? «Addio, devo andare... Ma ci rivedremo, forse... Qui o altrove, domani o mai più... Il tempo, tesoro, è contro di noi». Da ieri, colonna sonora dello struggente commiato di François Hollande all'omologo italiano. Al Renzì con il quale costruire il fronte dei Paesi del Mediterraneo - era soltanto un paio di settimane fa, ad Atene, ricordi? -. Anghela chiama, e Anghela significa Germania, Francoforte, Bce, soldi, finanza, banche, grande industria. Angela Merkel, sai, la stessa biondona della foto opportunity a Ventotene, chi non farebbe il piacere di un selfie al simpatico fiorentino? La stessa di Maranello, altra sfilata, altro favorino all'insistente Matteò.

Ma ora stop, bitte. Altro che fronte comune anti-austerity: l'Europa dolorante di Brexit si riorganizza attorno al suo asse portante, quello franco-tedesco. Circostanza già emersa con tutto il suo carico di sgradevolezza al vertice di Bratislava, dove non sono state affatto apprezzate le insistenze dell'alleato peninsulare, il Fiorentino inaffidabile nei conti, il Matteo delle promesse non mantenute, delle battute ruffiane, di quella simpatia bottegaia che s'esaurisce al dessert.

Dopo quello che pomposamente il premier italiano aveva fatto uscire come «strappo», il non aver partecipato a una conferenza stampa congiunta (pare che neppure l'avessero avvisato), ieri dall'agenda del presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, è emerso che mercoledì prossimo, in occasione di una cena a Berlino organizzata dall'European Round Table of Industrialist, ci sarà un incontro a margine cui parteciperanno Juncker, Merkel e Hollande. Da definire, qualche bazzecola: le linee guida dell'immediato futuro dell'Unione. E l'invito per Matteo Renzi? Non pervenuto. Anzi, neppure spedito. Segnale non di buon auspicio per la considerazione dell'Italia in ambito Ue, con la flessibilità già negata tante volte e a Bratislava quasi pretesa da Matteo per poter vincere il referendum sulle riforme (in virtù di una manovra con meno tagli, più bonus e promesse). Ma anche l'evidenza di un rapporto fallimentare con i leader europei, fino a ieri di sudditanza cortigiana e oggi rovesciatosi in populismo anti-Ue quasi di taglio grillino.

Nonostante non fosse del tutto inattesa, era inevitabile che Palazzo Chigi non prendesse affatto bene la notizia trapelata in mattinata, e ancora irrintracciabile sui siti dei quotidiani ultra-renziani (L'Unità, Messaggero) fino al tardo pomeriggio. Così, mentre veniva passata alle agenzie un'intervista alla Washington Post piena di elogi alla politica economica Usa e di critiche a quella Ue («Ora abbiamo fatto le riforme e possiamo criticare Bruxelles»), l'irritazione ispirava i successivi interventi del premier. «Le politiche di austerity non servono a niente e fanno male. Gli Usa investono nella crescita, grazie a Obama, da otto anni sono al segno più... Da noi in Europa c'è un meccanismo sbagliato che porta a buttare via il bambino con l'acqua sporca». Anche il presidente Mattarella parlava di «Europa più robusta», pur senza riuscire però a dileguare quella sensazione di fiducia revocata, di amaro in bocca per l'esclusione e il commiato a un premier che Bruxelles, ormai, non sa neppure più se arriva a mangiare il panetùn.

Così che a Berlino sarà, in pratica, un tressette col morto.

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