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Ma gli sconfitti di guerra ora dominano l'economia

Germania e Giappone dopo essersi arricchiti cercano un ruolo politico. Che può costare caro

Ma gli sconfitti di guerra ora dominano l'economia

Il riconoscimento di una sconfitta e la definitiva consacrazione di una vittoria. La visita di Shinzo Abe a Pearl Harbour può essere letta in due modi diversi e, solo all'apparenza, contrari. Il super-conservatore premier giapponese vuole rivedere la Costituzione pacifista scritta sotto dettatura americana alla fine della guerra. Intende giocare un ruolo di primo piano sulla scena internazionale e, finalmente, schierare un esercito vero, possibilità che l'attuale Carta gli vieta. Ha la maggioranza in Parlamento, gli serve qualche atto simbolico per attenuare le diffidenze di vicini e alleati. Per questo rende omaggio oggi ai morti americani, così come un anno fa ha risarcito le donne coreane usate come prostitute nei bordelli dell'esercito nipponico. Abe prende atto in tutti i sensi delle conseguenze della Seconda guerra mondiale. Perchè il Giappone condivide con l'allora alleata Germania uno stesso paradossale destino: la sconfitta sul campo militare e la vittoria nella competizione economica del periodo post-bellico. Ed è proprio questa vittoria che oggi giustifica le nuove ambizioni politiche del Sol Levante.

Per entrambi i Paesi il miracolo si chiama «guerra fredda». Colpevoli di aver trascinato il mondo nel più sanguinoso conflitto della storia, Tokio e Berlino avrebbero potuto aspettarsi un trattamento ben più punitivo dai nemici trionfanti. E almeno in Giappone il generale Douglas MacArthur, nominato plenipotenziario americano nel 1945, non nascose di voler applicare una cura radicale e dolorosa. Poi, però, la lotta al pericolo «rosso» si trasformò in una priorità così urgente da travolgere tutto, compresa l'esigenza di punire gli aggressori.

Tra la fine degli anni Quaranta e la guerra di Corea, Giappone e Germania (così come il resto dell'Europa con il piano Marshall) divennero destinatari di aiuti e sovvenzioni a tappeto. Nel corso dei decenni successivi poterono approfittare a mani basse del cosiddetto «effetto buckpassing», una sorta di scaricabarile politico in cui l'America si assumeva grane e oneri politico-militari legati alla difesa del mondo libero e garantiva il quadro istituzionale (libero commercio e stabilità monetaria) all'ombra del quale i due ex nemici potevano dedicarsi a un solo obiettivo: arricchirsi. Un tempo formidabili macchine politico-militari, Germania e Giappone si trasformarono in «Formule Uno» dell'economia.

Tra il 1950 e il 1960 il prodotto interno tedesco si moltiplicò per tre, le esportazioni per cinque, la disoccupazione si assestò sotto il 2%, nonostante l'arrivo di 8 milioni di profughi dei territori dell'Est assegnati alle nazioni che avevano vinto la guerra e ai 2,7 milioni in fuga dalla Ddr comunista. In Giappone le potenti keiretsu, conglomerate con nomi famosi come Mitsubishi, Toshiba e Toyota, che tanto avevano contribuito alla potenza militare del Paese e che MacArthur aveva cercato invano di fare a pezzi, si convertirono alla produzione di consumo conquistando il mondo.

Finchè è durata la «guerra fredda» Tokio e Berlino hanno vissuto come giganti economici e nani politici. Ora non si nascondono più. E il loro ritorno si sta rivelando più doloroso del previsto. In Asia ha contribuito a portare le tensioni geopolitiche al livello di guardia.

In Europa proprio le difficoltà tedesche nell'inedito esercizio della leadership politica hanno contribuito all'incancrenirsi della crisi dell'euro.

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