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È sempre Vannacci ma adesso se ne vanta

Il secondo libro del generale è l'elogio dei suoi valori. E in radio racconta di quando corteggiò un trans (a sua insaputa)

È sempre Vannacci ma adesso se ne vanta

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Nel suo primo libro, che gli ha portato 250mila copie vendute e gli ha tolto 11 mesi di servizio per «lesione al principio di neutralità della Forza Armata», il generale Roberto Vannacci raccontò Il mondo al contrario. Nel secondo, che esce oggi e non è più autoprodotto ma pubblicato da una solida casa editrice, prova a spiegare come si può raddrizzarlo. Con il coraggio, la terminazione e forza d'animo di un incursore. Come lui.

Eccolo qui: s'intitola Il coraggio vince (Piemme), con la parola «vince» scritta a specchio, è il marchio di fabbrica, e come sottotitolo: «Vita e valori di un generale incursore», appunto. Di fatto è un'autobiografia. Nello stesso tempo è un manuale di istruzioni per rileggere e capire meglio il primo libro, il bestseller del 2023 investito da pesanti polemiche per i contenuti ritenuti omofobi e sessisti (anche se nel libro manca la confessione fatta ieri a Un giorno da pecora di una cotta, per sbaglio, con una trans). Ma è anche una rivendicazione, orgogliosa, dei valori che l'autore difende da una vita: il senso del dovere, l'amore di Patria (con la maiuscola), l'elogio della famiglia tradizionale, la rivendicazione della diversità, anche etnica, degli individui: «Ma voi pensate che le differenze non esistano o volete eliminarle?». Meno provocatorio rispetto al primo libro (oltre era difficile andare), molto più curato (ha avuto un editing robusto, e compaiono anche citazioni colte, come quando Vannacci si sente il Cavaradossi della Tosca), preceduto da una «Nota» in cui si sottolinea che «Quest'opera rappresenta una forma di libera manifestazione del pensiero ed espressione delle personali opinioni dell'autore e non interpreta posizioni istituzionali» (è il paracadute editoriale dell'incursore) e dedicato italianamente «Alla mia adorata mamma», Il coraggio vince ha persino una struttura narrativa. Il racconto in prima persona è incorniciato dentro un'immaginaria, ma molto realistica, trasmissione televisiva dove Vannacci deve difendere le affermazioni più contestate del primo libro - su razzismo, omosessualità, guerra, confini e immigrazione - da una conduttrice con la fissazione delle luci di studio e che sembra avere una relazione col regista; un direttore di giornale persino più fanatico di Massimo Giannini; una petulante ecologista di prima fila e Ultima generazione; un «istrionico» critico d'arte che alla fine gli fa i complimenti (evvabè...), un ex magistrato (scrittore?) e un filosofo «televisivo». E da qui non esce nulla di nuovo, rispetto al primo libro, se non il fatto che il Generale torna a mettere in dubbio l'origine genetica dell'omosessualità: «Non mi risulta sia mai stato trovato il gene dell'omosessualità. Quando mi fanno notare che gay e lesbiche si nasce, non sono d'accordo, non del tutto. Credo nella forza dei condizionamenti sociali». Seguirà dibattito. E poi, come fosse intervallato ai blocchi televisivi, c'è il racconto della sua vita, dalla nascita a La Spezia, l'infanzia a Ravenna e l'adolescenza a Parigi in una famiglia italianissima, povera ma dignitosa, poi borghese ma frugale - padre ufficiale dell'Esercito e madre «energica e vitale», alla faccia del patriarcato: «Era la mamma che portava i pantaloni e i gradi in casa» - fino alla gallonata carriera militare, dal comando del Reggimento d'assalto paracadutisti «Col Moschin» a quello del contingente italiano in Iraq, tra ricordi «in prima linea», scelte non convenzionali e una malcelata autocelebrazione, dove il leitmotiv è il mito dell'incursore «capace di realizzare l'impossibile».

Tra i momenti da ricordare, segnaliamo. Gli anni parigini, dove Vannacci diventa madrelingua francese - «Ero diventato francese, senza smettere di essere italiano» - e va a scuola con Carla Bruni mentre la maestra è Maria Elisa Martines, la madre della ballerina Alessandra (un po' come la Parigi degli anni Venti in cui gli Italiens erano tutti allo stesso bistrot: De Chirico, De Pisis, Savinio, Severini...). Alcuni lirici rimpianti del «buon tempo andato» rispetto alla degenerazione del presente («Non sono fiero di quelle bravate adolescenziali. Ma sono certo che sia meglio sfidare le notti parigine che sfogare l'esuberanza giovanile con bullismo, delinquenza e atti vandalici, come molti ragazzi fanno adesso, nel nostro mondo al contrario», e ridagli). Alcune citazioni marziali («L'esercito è massa, l'incursore individuo»). L'ammissione che l'addestramento a resistere agli interrogatori si sia rivelato molto utile nei talk show nemici. La rivendicazione a proclamare le proprie idee sempre e comunque. Lo sprezzo per l'ansia ecologica di un occidente troppo ricco e ipocrita. Un incontenibile orgoglio italiano (siamo amati nel mondo). E un non scontato elogio dell'odio («uno dei propellenti della vita»).

Quello che si tirerà addosso, ancora una volta, con il suo nuovo libro.

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