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Lo sfottò al pm insistente: "Non ho una memoria da Pico della Mirandola"

Napolitano per tre ore e mezzo ha risposto a una quarantina di domande, anche a quelle non ammesse. Assente la parola "trattativa"

Lo sfottò al pm insistente: "Non ho una memoria da Pico della Mirandola"

La sbarra del presidente è una pregiata scrivania settecentesca e il tribunale in realtà è l'antica Sala del Bronzino. L'atmosfera rarefatta, i busti classici, gli arazzi fiorentini. Ma la sostanza non cambia, l'enormità del fatto non muta: c'è un capo dello Stato che per la prima volta nella storia d'Italia è costretto a declinare le proprie generalità e a testimoniare in un processo sulla mafia. Qui di solito Giorgio Napolitano riceve re e ambasciatori, adesso invece se la deve vedere con una quarantina tra pm, avvocati e cancellieri. Quando entra, alle dieci in punto, tutti in piedi tranne la Corte. Quando esce, tre ore e mezzo dopo, tutti fuori a cercare un microfono per raccontare la propria parziale, in certi casi distorta, versione dei fatti.

Il presidente «si è avvalso spesso» della facoltà di non rispondere. È stato reticente e «vago» su Loris D'Ambrosio. È stato aiutato dalla Corte. È stato «generico» sulla trattativa. No, parlò con Ciampi del rischio golpe dopo gli attentati del 1993. Versioni di parte spesso contrastanti, frammenti, depistaggi, polpette avvelenate, qualche verità. Ci pensa Leonardo Agueci, procuratore di Palermo, a fare chiarezza: «Un clima di grande collaborazione, ha risposto in modo esauriente a tutto».

Già all'ora di pranzo il Quirinale rimpiange la scelta di non fare entrare la stampa nel palazzo: era meglio una diretta streaming . Infatti «auspica» una veloce registrazione per informare correttamente l'opinione pubblica della deposizione.

Per la trascrizione ci vorranno alcuni giorni. Nel frattempo, provando a ricucire i brandelli, si è capito che a Napolitano sono state rivolte quaranta domande, delle quali solo quattro sono state respinte. Lui ha risposto a tutte. «Dal capo dello Stato massima disponibilità - racconta Basilio Milio, legale del generale Mario Mori -, ha risposto anche alle domande non ammesse». Pure a quelle del difensore di Totò Riina, che la Corte voleva stoppare. «Presidente, sei lei permette voglio accontentare l'avvocato». Ha sfottuto un po' il pm Di Matteo: «Ci stiamo allontanando dall'alveo originale della mia testimonianza, lei presume che io abbia una memoria da Pico della Mirandola, se pensa che possa ricordare una nota a firma De Gennaro». E ha rimbrottato il legale del Comune di Palermo, Giovannni Airò: «Lei non è stato attento, le minacce D'Ambrosio le ha ricevute non quando lavorava con Falcone, ma quando alla Procura di Roma indagava sul terrorismo».

Sul merito del processo, poco o nulla. «La testimonianza - spiega l'avvocato Milio - non sposta niente». Napolitano non ha mai saputo «di accordi» tra la mafia e lo Stato, anzi, la parola «trattativa» non è stata nemmeno pronunciata. Sugli attentati che Cosa nostra o qualcun altro stavano preparando nel 1993 contro lui e Ciampi, «ho notato che un breve periodo la mia scorta fu rafforzata», ma «chi ha ruoli istituzionali non può farsi intimidire». Sull'allentamento del regime duro ai boss, il 41 bis, ha assistito «da spettatore, non sono un giurista». E sui tormenti di D'Ambrosio che temeva di essere stato usato per «indicibili accordi», per il capo dello Stato forse era solo un'ipotesi, infatti il consigliere giuridico non denunciò mai nulla.

Insomma, più che una deposizione, una ripicca della Procura di Palermo. Napolitano vuole girare pagina.

«Il presidente ha risposto alle domande senza opporre limiti di riservatezza connessi alle sue prerogative costituzionali», ma ora quello che ha detto deve essere reso pubblico «con la massima trasparenza».

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