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Show tv di Di Matteo. Attacca Csm e Anm: "Serve il pentito di Stato"

Il pm del processo sulla trattativa a ruota libera su Raitre: «M5s mi stima? Mi sta bene»

Show tv di Di Matteo. Attacca Csm e Anm: "Serve il pentito di Stato"

Le motivazioni del verdetto usciranno solo fra tre mesi. Pazienza. Gli italiani possono già ascoltare le sue interpretazioni in calce ala sentenza sulla trattativa Stato mafia. Nino Di Matteo, il pm di quel dibattimento, il magistrato più corteggiato dai Cinque stelle insieme a Piercamillo Davigo, la toga forse più antiberlusconiana d'Italia, è ospite di Lucia Annunziata e in mezz'ora celebra un processo mediatico che va ben oltre quello di Palermo e si chiude con condanne a raffica: per l'Anm e il Csm che non l'hanno difeso dagli attacchi, per Berlusconi, in contatto con Cosa nostra attraverso Dell'Utri. L'ex senatore è stato condannato insieme al generale Mori e ad esponenti delle istituzioni e di Cosa nostra, ma la materia andrebbe maneggiata con prudenza, come dinamite. Un grappolo di sentenze, in procedimenti paralleli, contraddice in pieno le convinzioni cui è giunta venerdì la corte d'assise del capoluogo siciliano e peraltro non è pedanteria ricordare che siamo al primo grado e siamo pure abituati ad un'altalena da capogiro di condanne e assoluzioni.

Ma per Di Matteo evidentemente queste considerazioni sono cavilli e cosi, davanti alle telecamere, va a briglia sciolta. Fra deduzioni e suggestioni: «Non pensiamo che i carabinieri abbiano agito da soli. Quel che serve ora è un pentito di Stato». Che sveli una volta per tutte gli indicibili segreti.

Di Matteo non si fa pregare dalla conduttrice e punta subito il dito: «Quello che mi ha fatto più male è che, rispetto alle accuse di usare strumentalmente il nostro lavoro, abbiamo avvertito un silenzio assordante di chi speravamo ci difendesse come il Csm, e invece è stato zitto anche l'Anm». Che non ci sta: «Abbiamo sempre difeso dagli attacchi l'autonomia e l'indipendenza di tutti i magistrati».

Poi Di Matteo passa al merito dei capi d'accusa: «Gli ufficiali dei carabinieri sono stati condannati per aver svolto un ruolo di cinghia di trasmissione delle richieste della mafia nel 92, quindi rispetto ai governi Amato e Ciampi, mentre dell'Utri è stato condannato per aver svolto il medesimo ruolo nel periodo successivo a quando Berlusconi è diventato premier». Insomma, Dell'Utri avrebbe mediato fra il Palazzo e i boss nel 1994. Un cortocircuito perfetto rispetto ad altri procedimenti, a cominciare da quello in cui l'ex senatore è stato condannato si per concorso esterno, ma solo fino al 1992 e assolto per gli anni successivi.

Il punto meriterebbe quantomeno un approfondimento, ma il magistrato, oggi in forza alla Procura nazionale antimafia, sottolinea invece il dato più politico: «Se Dell'Utri ha veicolato le minacce al governo Berlusconi, un dato di fatto è che nè Berlusconi nè altri hanno denunciato all'epoca quelle minacce. Il dato rimane molto preciso e molto pesante».

Dunque, questa sentenza è una pietra miliare, fra storia e cronaca. E per Di Matteo dovrebbe essere «il punto di ripartenza per altre indagini». In realtà le inchieste su questa materia incandescente non si sono mai fermate, in un sistema di vasi comunicanti che sembra non dover mai finire. Berlusconi è di nuovo indagato a Firenze, dopo due archiviazioni, nel filone nato dalle intercettazioni del boss Giuseppe Graviano. Dettagli che non entrano nello show.

Di Matteo indossa la toga, ma, fra un'intervista e un convegno, non spegne il feeling con i Cinque stelle che hanno già fatto il suo nome per tanti possibili incarichi. «Se qualcuno manifesta stima nei miei confronti, non ho motivo per impedirlo e non ho nulla di cui vergognarmi».

Chissà se gli italiani la pensano allo stesso modo.

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