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La sinistra umilia le donne se si candidano per Grillo

Da Roma a Torino, sberleffi in serie dal Pd contro Raggi e Appendino. Le ministre renziane? Intoccabili

La sinistra umilia le donne se si candidano per Grillo

Onore al compagno Travaglio. Nella verace commozione di Francesca Pascale alla finestra, colta dai fotografi nell'attesa di Silvio sotto i ferri, un ispirato direttore del Fatto scorge la disperante miseria dei tempi. E la parola corretta, linciaggio, che definisce questa berlina cui il conformismo di massa sottopone chi vi si sottrae. Specie se donna, specie se vestale mancata di un rito che oggi il Partito del Potere incarna più che mai. Culto nel quale anche la morale è conformismo nella sua versione più aderente al basso, alla norma della maggioranza che non si può trasgredire, e dunque autoritaria alla massima potenza. In una parola, il renzismo. Che oggi potrebbe essere declinato anche in altro modo: pidini che odiano le donne.

Così Francesca Pascale, così altre dame finite sotto i ferri perché divergenti dal cliché, o in quanto di centrodestra, o solo perché donne. Rivelatore è il trattamento che in questa campagna elettorale è stato riservato alle due candidate grilline da un Pd (più lobby a esso connesse) schiumante di rabbia. Lo stesso Nazareno ossessionato dall'anti-sessismo - quando le donne si chiamano Mariaele Boschi, Marianna Madia, Debora Serracchiani - si tramuta in stalker spudorato e volgare. Molestatore non per la denuncia di difetti e carenze di Virginia Raggi o Chiara Appendino, quanto piuttosto il loro essere inadatte, poco ferrate, deboli, ancora più succubi di Grillo o Casaleggio dei colleghi maschi. Con una violenza crescente di affermazioni che ha pochi precedenti, proprio perché tese a delegittimare il nemico, a innervosirlo sperando nel suo passo falso. Sorte, se vogliamo, toccata in origine a una certa nouvelle droite, e sempre in particolar modo alle sue rappresentanti femminili (Mara Carfagna, per fare un nome su tutti).

Tattiche nelle quali non s'annida l'eccesso di furbizia, bensì il mix di fastidio e sufficienza. Arroganza, anzi oltracotanza, così com'è apparso evidente nella polemica sul minacciato blocco dei fondi della ministro Boschi alla torinese Appendino. E se Raggi dovesse alla fine conquistare il Campidoglio, «resistere alle ultime secchiate di fango», lo dovrà a una qualità su tutte: la capacità di non perdere la testa dimostrata in questi mesi. Stillicidio cominciato con annunci di dossier e la storia del curriculum «falso» (omissione di un apprendistato alle fotocopie del tribunale di Roma, come capita un po' a tutti i praticanti di studi legali; ma la maldicenza voleva insinuare torbidi legami con lo studio Previti). E poi, quando la ragazza s'è messa di traverso a palazzinari e cazzuolari d'ogni ordine e rito, eccola trascinata per i capelli come «responsabile di caduta del titolo Acea in borsa che danneggia i romani» (Messaggero di Caltagirone, nero su bianco). Quindi additata dall'Unità come ex forzista per un filmato rivelatosi falso; e bollata come ammiccatrice di voti fascisti (gente del Pd tipo Marcucci o Romano, ed è quanto dire). O «inesperta» (Zanda). «Meritevole di bocciatura già in terza elementare» (Tabacci). «Dice cose prive di senso» (Causi); «vuol far fallire la città» (Bonaccorsi); «da brividi» (Casini, ex genero di Caltagirone); «se vince sarà un problema» (Renzi); «sindaco fantoccio» (Esposito); «una abituata a prendere ordini» (Orfini). E se la Raggi dice che farà un solo mandato, Giachetti l'apostrofa: «Non ci credo»; e se tarda a presentare la squadra, «chissà cosa nasconde» (Bonaccorsi), e se parla di «Nazareno all'amatriciana» si fa vivo persino il sindaco di Amatrice (Rieti).

Non per dirle di tornare a far la calza o il ragù, ma solo perché era sottinteso.

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