Politica

"Sono contraria. Sui social network andava bloccata"

Milano - Quando ieri mattina ha aperto i social network, che sono un po' il suo habitat naturale, l'è presa una sensazione di «fastidio», quasi di nausea. Come se si sentisse «satura» di tutte quelle «condivisioni» che su Facebook e Twitter moltiplicano la diffusione di immagini che ritraggono minori coinvolti in conflitti lontani. E quella di Omran «lo è», dice Viviana Musumeci, giornalista, un magazine online (Vm-Mag), una cattedra di Editoria Digital all'Accademia del Lusso di Milano, e una figlia di sei anni. Lo è, continua, insieme a tutte le altre di bambini straziati da ferite e violenza.

Si dovrebbe impedirne la diffusione?

«Sì. Ma parlo esclusivamente di social network. A volte mi verrebbe voglia di eliminare il tasto condividi. Perché vedere rilanciate quelle foto mi sembra un ulteriore sfregio a bambini che già vivono tragedie inimmaginabili».

Qualcuno lo vede come un limite alla circolazione dell'informazione.

«Nel mondo dei social tutti sono in grado di fare qualsiasi cosa, ci sono quelli che ti danno cure senza essere medici e quelli che pensano di fare informazione condividendo un'immagine. E invece stanno solo amplificando l'orrore di un bambino senza vita, come Aylan, o ferito, come Omran, senza fare nulla per risolvere questi drammi».

Quelle foto urtano le sensibilità collettiva?

«Non è questione di turbamento, o meglio non solo. Con la condivisione frenetica da un profilo all'altro si crea un cortocircuito per cui si spettacolarizza passivamente la violenza senza alzare un dito per risolverla».

Se servisse per «risvegliare le coscienze»?

«Non abbiamo bisogno di vedere per sapere cosa succede nel mondo. In questi casi la demagogia mi fa molta paura»

Qual è il pericolo?

«Che finiscano per anestetizzare le nostre coscienze: bombardati come siamo da immagini violente, è alto il rischio assuefazione. Che infine ci si abitui all'orrore, che lo si condivida su Facebook e Twitter credendo di dare chissà che informazione, per dimenticarsene un attimo dopo. Condividere è un modo per giustificarsi, per darsi un alibi, per credere essere stati partecipi del dolore. Non è così».

Come uscirne?

«Ci vuole una regolamentazione globale della rete. La democratizzazione di internet, con i social, ha fatto sì che a volte si apra bocca senza pensare.

C'è bisogno di una mediazione».

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