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Sprechi, danni e mancette: ora ci deve ridare 12 miliardi

Tra assistenzialismo, crisi aziendali e staff gonfiati, ecco la pesante eredità di Di Maio, leader e ministro

Sprechi, danni e mancette: ora ci deve ridare 12 miliardi

Ventiquattro anni. Tanto ci volle a Bettino Craxi per arrivare dalla prima tessera del Psi a segretario del partito, come nota Fabio Martini nel suo Controvento. Luigi Di Maio ne ha impiegati dieci esatti dalla fondazione del meetup di Pomigliano all'elezione a capo politico del M5s nel 2017. Ma, al di là delle cattiverie snobistiche sul salto dallo stadio San Carlo a Palazzo Chigi, colpisce che Craxi restò segretario del partito per diciassette anni. La stella di Di Maio potrebbe essere sorta e tramontata in tre anni.

L'uomo di Pomigliano resta pur sempre ministro degli Esteri, ma certo il futuro non pare roseo. E nonostante la rapidità del suo passaggio nel firmamento della politica, gli effetti deleteri sembrano tutt'altro che passeggeri o imponderabili. Se si dovesse presentare a Di Maio il conto dei provvedimenti che si è intestato, verrebbe fuori una fattura decisamente salata. A partire dai sette miliardi del reddito di cittadinanza. Della distanza siderale tra le intenzioni dichiarate sul balcone di Palazzo Chigi («abolire la povertà») e gli effetti reali (un pasticcio che al momento crea zero lavoro e alimenta il parassitismo, raramente risolvendo davvero i problemi di chi ha bisogno) si è già scritto tutto. Restano da valutare le ripercussioni future, a partire dalla diffidenza che il crollo inevitabile del reddito di cittadinanza creerà verso questo tipo di sistemi di welfare.

Ed è proprio sul versante del lavoro che «l'effetto Di Maio» ha un bilancio più in rosso. Quanto dovrebbe sborsare l'ex capo politico se dovesse riparare alla gestione disastrosa del ministero del Lavoro e di quello dello Sviluppo, che guidava in epoca gialloverde. Come indicatore si può prendere la cassa integrazione: al suo insediamento a giugno 2018 erano state autorizzate 19,3 milioni di ore di Cigs. Un anno dopo, a giugno 2019, due mesi prima del crollo del governo M5s-Lega, la Cigs era salita del 42 per cento a 27,6 milioni di ore.

Stesso andamento per le crisi aziendali, la cui gestione è in capo al Mise. I tavoli con le aziende in difficoltà erano 144 a giugno 2018. Un anno dopo, a giugno 2019, erano aumentati a 158. I casi più lampanti, Alitalia e Ilva, sono diventati simboli di una incapacità di prendere decisioni e di essere efficaci. Fu proprio Di Maio a chiudere l'accordo con ArcelorMittal gloriandosi di aver «risolto in tre mesi» la crisi dell'Ilva che si trascinava da anni sotto il centrosinistra. La storia poi è andata come sappiamo: si è sfiorata la chiusura della principale acciaieria italiana. E che dire di Alitalia e della meravigliosa idea di affidarla a un partner pubblico? Il dossier ancora aperto costa due milioni di euro al mese. Nel solo periodo in cui Di Maio è stato ministro del Lavoro e dello Sviluppo, Alitalia ha perso circa 900 milioni, coperti dai cosiddetti prestiti ponte.

Ma il vero paradosso di questa parabola politica è che il leader del movimento anticasta si è fatto notare anche per le ingenti spese di gestione. Al Mise e al Lavoro ha piazzato un lungo elenco di amici del liceo, vicini di casa, ex grillini trombati alle elezioni. Uno staff gigante il cui costo è stato stimato in circa un milione di euro l'anno. Passato agli Esteri, ha messo su uno staff grande il doppio di quello di Alfano: costo 711mila euro l'anno.

In totale il «costo Di Maio» ammonta dunque a oltre 8 miliardi. Aggiungendo i 3,5 potenziali quantificati dal tribunale come costo se chiudesse Ilva, si può arrotondare a 12 miliardi totali. Di Maio, come la mettiamo? Rimborsa a rate?

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