Politica

Di Stefano e i «dossier» temuti dai compagni

Nelle intercettazioni cenni a carte compromettenti. La scalata al Parlamento tra liti e minacce. Nelle carte spunta anche una laurea telematica "comprata"

Di Stefano e i «dossier» temuti dai compagni

Roma - Un uomo per tutte le stagioni politiche. Prima di finire nel mirino della procura di Roma per la presunta tangente da 1,8 milioni di euro intascata dai costruttori romani Pulcini, Marco Di Stefano ha girato un po' di partiti e correnti, per poi sbarcare alla Camera in quota Pd. Mentre i pm avanzano nuove ipotesi accusatorie sul deputato - l'ultima è la laurea telematica in scienze giuridiche che avrebbe pagato assicurando al rettore dell'ateneo una consulenza in Regione - lui presto verrà interrogato sulla vicenda dei due palazzi dei Pulcini affittati da Lazioservice a 7 milioni l'anno. Operazione conclusa con la presunta complicità di tre dirigenti della società controllata dalla Regione - Tonino D'Annibale, Giuseppe Tota e Claudia Ariano - indagati e ora sospesi in via cautelare. La ricca rendita avrebbe garantito ai Pulcini una plusvalenza al momento di vendere gli immobili, e gli imprenditori avrebbero in cambio elargito la mazzetta all'ex assessore, più la tangente «collaterale» da 300mila euro al suo collaboratore Alfredo Guagnelli, sparito dal 2009 e su cui la procura indaga per omicidio.

Francesco Storace intanto punzecchia la giunta Zingaretti perché i tre avvisi di garanzia amplificano la gaffe dell'assessore alla Casa Refrigeri, che rispondendo a un'interrogazione del leader della Destra aveva definito le procedure per gli affitti «coerenti con la disciplina vigente», salvo smentita per via giudiziaria. Di certo, nel Pd, il nome Di Stefano è ormai tabù. Forse per timore dei dossier contro il suo stesso partito a cui secondo i pm l'ex assessore pare alludere, intercettato dopo le primarie Pd, quando minaccia guerra al partito per averne messo a rischio l'elezione. Eppure il «capobastone-portavoti» Di Stefano ha girato diverse correnti tra i dem, prima dell'intervento da renziano all'ultima Leopolda. Nel 2005, lasciata l'Udc sedotto da Walter Veltroni, Di Stefano porta a cena all'hotel Exedra di Roma cento delusi centristi, attovagliato con Veltroni, Marrazzo e Gasbarra. Il feeling con Uòlter dura poco. Nel 2009, persa la poltrona da assessore in un rimpasto, Di Stefano sibila accuse contro gli ex commensali e dichiara fedeltà a Enrico Letta. Alle ultime europee appoggia Goffredo Bettini che, in cambio, avrebbe caldeggiato a marzo l'elezione di una fedelissima di Di Stefano, Liliana Mannocchi, a presidente dell'assemblea regionale Pd. Ma scoppia il caos tra spintoni e malori, e l'elezione della Mannocchi viene annullata. Anche su Ignazio Marino incombe l'ombra di Di Stefano. Non solo perché è entrato in Parlamento da primo dei non eletti solo grazie alla «chiamata» in giunta da parte del sindaco-chirurgo di Marta Leonori. Ma anche perché proprio la Mannocchi è prima dei non eletti in Campidoglio. E Marino, alle prese con il rimpasto di giunta «imposto» dal Pd dopo il multagate , rischia di far filotto. Prima spingendo in parlamento l'innominabile del Pd.

Poi accogliendo la sua fedelissima in Aula Giulio Cesare.

Commenti