Terrorismo

Strage alla tomba di Soleimani. "Terroristi, la risposta sarà dura"

Due bombe alla cerimonia per il generale iraniano ucciso nel 2020 dagli Usa: oltre 100 morti. Ira Teheran: "Criminali". Washington: "Noi e Israele non coinvolti"

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Una strage nel cuore dell'Iran messa a segno con due bombe fatte esplodere in mezzo alla folla diretta verso il sacrario del «martire» Qassem Soleimani, il defunto generale dei Pasdaran simbolo dell'espansionismo militare iraniano. La strage di Kerman è l'ennesimo braciere acceso sotto una pentola a pressione mediorientale vicinissima ormai al livello di ebollizione. Ma la probabile matrice interna dell'attentato eviterà di farne un detonatore e trasformare in conflitto aperto la guerra strisciante tra Israele e Repubblica Islamica. Detto questo le oltre cento vittime e i 150 feriti raccolti intorno al cimitero di Kerman rappresentano per Teheran un colpo durissimo. Ieri ricorreva infatti il quarto anniversario della morte di Soleimani, il leggendario comandante dei Guardiani della Rivoluzione ucciso - il 3 gennaio 2020 - da un drone americano nei pressi dell'aeroporto di Bagdad.

Colpendo la folla di militanti e devoti diretti verso la sua tomba si è colpita la memoria di uno simboli della Repubblica Islamica, uno degli uomini più cari alla Suprema Guida Alì Khamenei che non a caso ieri è intervenuto personalmente denunciando gli «odiosi criminali» e promettendo una «risposta severa». In tutto ciò le modalità dell'attentato restano oscure. Stando all'agenzia di stato Irna la strage è stata causata da due ordigni, il primo esploso a 700 metri dalla tomba del generale e il secondo 15 minuti più tardi, che avrebbe colpito la folla a un chilometro dal sacrario.

Secondo Tasnim, l'agenzia di stampa dei Guardiani della Rivoluzione, il massacro è stato causato da due borse imbottite di esplosivo telecomandate a distanza. Altre testimonianze fanno pensare a ordigni nascosti sul percorso. «Stavamo camminando verso il cimitero - ha raccontato un testimone - quando un'auto si è fermata e una bomba nascosta in un bottino dei rifiuti è esplosa in mezzo a noi». Il presidente iraniano Ebrahim Raisi parla di un evento «codardo» e «atroce» e promette l'immediata punizione degli autori. Il ministro dell'Interno Ahmed Vahidi garantisce invece una risposta «potente e schiacciante nel tempo più rapido possibile».

Prima, però, bisognerà capire chi ci sia dietro le bombe. Nonostante la crescente tensione le autorità iraniane si sono ben guardate, fin qui, dall'accusare il nemico israeliano. E anche gli Usa, per bocca del portavoce del consiglio di sicurezza John Kirby, hanno negato di avere «indicazioni che Israele sia coinvolto», mentre il portavoce del Dipartimento di Stato americano Matthew Miller ha escluso anche qualsiasi coinvolgimento americano.

Dietro l'apparente moderazione di Teheran vi sono ragioni di pragmatico realismo e di opportunità politica e militare. Israele negli anni passati ha colpito più volte sul territorio iraniano uccidendo scienziati coinvolti nel programma nucleare di Teheran, rapendo agenti dei pasdaran incaricati di preparare attentati contro obbiettivi israeliani e, il 25 dicembre scorso, uccidendo nel corso di un'incursione aerea in territorio siriano Seyyed Razi Mousavi, comandante dei Guardiani della Rivoluzione considerato fra i successori del «martire» Soleimani. Ma Israele ha sempre colpito obbiettivi mirati cercando di limitare le perdite collaterali. Modalità ben diverse dall'attentato nel mucchio di Kerman

L'attentato ci ricorda però che tra i principali nemici del generale Soleimani si contavano - oltre a Israele - anche lo Stato Islamico e vari gruppi terroristi di matrice iraniana. Tra quest'ultimi i più attivi sono sicuramente i Mujaheddin del Popolo e i militanti di Jundallah, un'organizzazione armata di fede sunnita responsabile di varie stragi simili a quella di Kerman. Il maggior indiziato resta però lo Stato Islamico. Anche perché al culmine della sua carriera il generale Soleimani armò e guidò le milizie sciite che combattevano i miliziani dell'Isis.

E tra il 2016 e il 2017 contribuì in maniera decisiva alla riconquista di una Mosul trasformata nella capitale dello Stato Islamico in territorio iracheno.

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