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Svolta nel delitto Macchi "La lettera l'ho scritta io"

La testimonianza di un avvocato: un uomo si attribuisce lo scritto che incastra Binda

Svolta nel delitto Macchi "La lettera l'ho scritta io"

Milano Ruota ancora intorno al componimento In morte di un'amica, a 32 anni dal delitto, il mistero della morte di Lidia Macchi. E il manoscritto ricevuto il giorno del funerale dalla famiglia della 20enne di Varese uccisa con 29 coltellate nel gennaio del 1987 scandisce i nuovi colpi di scena del processo. Davanti alla Corte d'assise d'appello di Milano l'avvocato bresciano Piergiorgio Vittorini ha ribadito: «Un uomo che non avevo mai visto mi ha contattato nel febbraio-marzo 2017 per dirmi di aver scritto lui la lettera. Ma non posso rendere noto il suo nome, sono vincolato dal segreto professionale». La rivelazione, se fosse possibile verificarla, sarebbe esplosiva. Lo scritto anonimo infatti è stato attribuito all'assassino e sulla base di quel testo (ma non solo) lo scorso aprile è stato condannato all'ergastolo in primo grado Stefano Binda, ex compagno di liceo della vittima.

L'avvocato Vittorini si era già fatto avanti, come ha spiegato lui stesso su mandato del suo cliente senza volto, durante il processo alla Corte d'assise di Varese. In quell'occasione però i giudici decisero di non farlo deporre, stabilendo che non poteva avvalersi del segreto in modo parziale e selettivo. Ieri il penalista bresciano ha potuto dare la propria versione, dopo chela Corte aveva disposto la riapertura del dibattimento. Tra le opposizioni su molti punti del pg Gemma Gualdi e dell'avvocato che assiste la famiglia Macchi, Daniele Pizzi. Il misterioso cliente avrebbe detto a Vittorini di essere «tormentato» e «lacerato» per il fatto che Binda, arrestato nel gennaio 2016 e presente ieri in aula, si trovava in carcere anche sulla base di quella poesia: «L'ho scritta io - ha dichiarato al legale -, ma non ho ucciso nessuno». Si tratterebbe di un uomo che all'epoca dell'omicidio militava in Cl, come Lidia e Binda (non così Vittorini), ma era più grande d'età e non frequentava gli stessi gruppi. Non conosceva la vittima né la sua famiglia né l'imputato. Sposato, con figli, con una professione, profondamente cattolico e di alto livello culturale. Nei giorni del delitto non si trovava a Varese e ha voluto con la lettera anonima esprimere un cordoglio «discreto ma partecipativo».

L'avvocato ha poi esposto l'interpretazione datagli dal suo cliente dei versi di In morte di un'amica. Una spiegazione opposta a quella data dai periti dell'accusa e accolta nella sentenza di condanna. Il componimento sarebbe pieno di riferimenti biblici e non di immagini che richiamano dettagli dell'omicidio e dello stupro della giovane che, secondo gli inquirenti, solo l'assassino poteva conoscere. Il «velo di tempio strappato», ad esempio, non sarebbe un riferimento alla verginità violata della vittima bensì il velo del tempio che «si squarciò» alla morte di Cristo secondo i Vangeli. Ancora: «Consumatum est» e «antichissimo errore» non sono richiami a un rapporto sessuale e al peccato originale bensì alla ribellione dell'orgoglio dell'uomo contro Dio.

Vittorini ha aggiunto che il suo assistito non è disponibile né a fornire un campione di Dna in forma anonima né a sottoporsi a una perizia grafologica: «Ha paura di finire accusato ingiustamente di omicidio».

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