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"Tangenti vere, bilanci falsi" Il giudice inguaia De Benedetti

Denunciare Tronchetti Provera è stato un boomerang. Le motivazioniu dell'assoluzione del presidente Pirelli rispolverano i momenti bui, compresa l'uscita dal Banco Ambrosiano di Calvi

"Tangenti vere, bilanci falsi" Il giudice inguaia De Benedetti

Tutto vero: il coinvolgimento di Carlo De Benedetti nel disastro dell'Ambrosiano e la sua residenza svizzera, le accuse di tangenti e la condanna per falso in bilancio. A De Benedetti l'idea di querelare per diffamazione il suo arcirivale Marco Tronchetti Provera ha portato decisamente male. Perché il 21 settembre scorso il presidente della Pirelli è stato assolto con formula piena; e perché ieri il Tribunale di Milano deposita le motivazioni di quella assoluzione. Il giudice non si limita a riconoscere a Tronchetti Provera di avere esercitato il diritto di critica, nell'ambito della polemica furibonda che nell'ottobre di due anni fa lo contrapponeva a De Benedetti (innestata, peraltro, da quest'ultimo con una intervista a Radio 24); ma si spinge più in là, e - per verificare la fondatezza delle affermazioni dell'imputato - ripercorre passo per passo i momenti più bui della carriera imprenditoriale dell'Ingegnere. E arriva alla conclusione che le cose andarono esattamente come riferisce Tronchetti.Su un solo punto il giudice Monica Amicone, nelle trenta pagine delle motivazioni, dà torto a Tronchetti Provera: è il passaggio relativo alla uscita di De Benedetti dalla Fiat, nel 1976, dopo appena cento giorni dall'ingresso nella società torinese. «Allontanato», secondo Tronchetti. Mentre invece tutti gli ultraottuagenari testimoni sfilati in aula (come Gabetti e Romiti) hanno detto che fu l'Ingegnere ad abbandonare l'azienda. Ma per il giudice comunque non c'è reato: un po' perché Tronchetti ha detto «allontanato» e non «cacciato», un po' perché i testi hanno spiegato che gli Agnelli non lasciarono molta scelta, dopo avere ritenuto impensabile il piano di licenziamenti di massa («macelleria sociale», verrebbe chiamato oggi) propugnato da De Benedetti.Dettagli. Per il resto, per le altre accuse lanciate da Tronchetti, il giudice prende atto che si tratta di accuse gravi, tali da minare l'immagine pubblica di De Benedetti, «posto ai vertici di una grande società di capitali, lesa sul piano della capacità professionale». Peccato che siano tutte vere. A partire dal coinvolgimento in Mani Pulite, quando De Benedetti venne inquisito e arrestato per corruzione, e se la cavò solo grazie alla prescrizione: saggiamente su questo punto De Benedetti non ha sporto querela, ma la vicenda è entrata ugualmente nel processo, e il giudice se ne occupa solo per dire laconicamente che «si tratta di circostanze vere».Vera la residenza svizzera, ricordata da Tronchetti: «fatto vero documentalmente provato», «perfettamente coerente con la verità del fatto e con il principio di continenza, non essendo certo trasmodata in un gratuito attacco alla persona del De Benedetti che peraltro cittadino svizzero era davvero, sebbene a quei tempi, come ha dimostrato, pagasse in Italia le imposte». Vera anche la condanna per falso in bilancio dell'Olivetti, quella che- in una deposizione dai contorni quasi surreali - l'Ingegnere prima negò di avere mai subito, poi disse di essersi dimenticato: «Ritiene il tribunale che la considerazione di cui si discute non può essere affatto considerata falsa», scrive il giudice Amicone, «appaiono quanto meno prive di rilievo, oltre che opinabili, le considerazioni sulla natura formale o marginale della fattispecie penale rispetto alla quale De Benedetti ha chiesto e ottenuto l'applicazione della pena».E soprattutto vera (e qui l'autogol di De Benedetti si fa quasi doloroso) la storia del coinvolgimento nel crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, il più grave e cupo scandalo della finanza italiana degli anni Ottanta. Qui il giudice è ancora più severa di Tronchetti, perché ricorda che De Benedetti alla fine fu assolto per motivi procedurali. Ricorda i 51 miliardi di lire con cui l'Ingegnere uscì dal Banco, «tutto ciò non era certo nell'interesse del Banco Ambrosiano ma unicamente perché l'imputato abbandonasse la gestione di quell'azienda e in aperta violazione della legge bancaria all'epoca vigente (...) quando si era dimesso e aveva definito ogni rapporto economico con il Banco Ambrosiano, De Benedetti non solo conosceva in quali condizioni la banca versava ma aveva approfittato di una posizione di forza all'interno del Banco».

E ricorda che l'Ingegnere sapeva bene in quale compagnia si imbarcava: «Quando De Benedetti era entrato a fare parte del consiglio d'amministrazione del Banco Ambrosiano non solo Calvi era già stato arrestato perché accusato di gravi infrazioni valutarie ma era già stato pubblicato l'elenco degli affiliati alla P2 e il nome di Calvi era apparso su quotidiani di notevole diffusione».

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