Politica

Torino invasa dai 40mila che dicono "Sì" Avviso di sfratto ai gialloverdi

La Tav è un simbolo, la marea umana pretende che finisca la stagione dei veti ad affari e cultura

Torino invasa dai 40mila che dicono "Sì" Avviso di sfratto ai gialloverdi

nostro inviato a Torino

Dal cassone del camion trasformato in palco, il municipio si intravvede appena, in fondo a via Palazzo di Città, con le sue finestre malinconicamente spente, buie come la fine incombente di una stagione. Il sindaco Chiara Appendino è lì, nel suo ufficio, come ogni sabato, ad aspettare cittadini e comitati: ma non arriva nessuno. Sotto il palco di piazza Castello, invece, una marea umana scintillante di entusiasmo e di rabbia: ed entrambi sono sentimenti che il clichè vorrebbe lontani dall'indole ordinaria dei torinesi. Invece eccola qua, una intera città o almeno tante parti di essa, a dire di sì alla Tav, all'alta velocità ferroviaria divenuta - forse al di là del suo impatto concreto - oggetto di uno scontro simbolico tra due modi inconciliabili di vedere la vita e la politica.

Quarantamila dovevano essere, nel solco dell'esempio che ventotto anni fa ridusse alla sconfitta i comunisti e la Fiom: quarantamila sono, e forse pure di più, e vanno a segnare - ancor più brutalmente della marcia del 1980 - la sconfessione dei 5 Stelle e delle loro dissennatezze. Così fanno inevitabilmente irruzione negli equilibri del governo, che alla formulazione un po' farisaica del contratto tra leghisti e grillini su questo capitolo (rileggiamola: «con riguardo alla Linea ad Alta Velocità Torino-Lione, ci impegniamo a ridiscuterne integralmente il progetto nell'applicazione dell'accordo tra Italia e Francia») vede contrapposta ieri mattina la nettezza di una città che dice semplicemente «la Tav è il futuro». È facile vederci la sofferenza di una ex capitale in declino, i colpi della crisi, il complesso crescente di inferiorità verso Milano. Ma è altrettanto facile vederci l'orgoglio sabaudo, che alla «protesta garbata», all'auotironia dei cartelli «Associazione zitelle salottiere», unisce una durezza di fondo con la quale da oggi la Appendino dovrà fare i conti: per amore della sua città, per rispetto della sua gente. O anche solo, semplicemente, per buon senso.

Non ci sono, come imposto dagli organizzatori, né bandiere di partito né di sindacato. Non ci sono i giovani, con poche eccezioni: ma c'è l'ossatura della città, dai quarantenni agli ottuagenari. E l'assenza di simboli di partito non impedisce di cogliere che a guidare la protesta «sì Tav», e a prendere così la guida dell'opposizione a un sindaco eletta con il 54 per cento appena due anni fa, sia di fatto la Torino moderata. Come se la sconfitta elettorale di due ani fa avesse segnato l'implosione del Pd nella città-fabbrica, la dissoluzione dall'orizzonte torinese del partito che qui, ben prima di Fassino e Chiamparino, aveva espresso Gramsci e Togliatti.

Ad incarnare visivamente l'egemonia moderata sulla protesta, più ancora delle sette signore che hanno lanciato l'appello (etichettate dal Fatto come «madamine», ieri replicano: «siamo orgogliose di esserlo») è il 73enne che sul palco si impadronisce della scena, e prende il ruolo che nella marcia del 1980 fu del baffuto Luigi Arisio, «capetto» Fiat: Bartolomeo Giachino detto Mino, segretario negli anni Ottanta del mitico Carlo Donat Cattin, poi uomo-macchina della Dc, poi sottosegretario nei governi Berlusconi. Non esattamente un homo novus, insomma. Ma uno che la città la conosce, che ne sa toccare tanto le corde profonde che le speranze, tra citazioni di Cavour e promesse mirabolanti: «La Tav sarà la Via della seta ferroviaria, unirà la Spagna al Pacifico, muoverà il 40 per cento del Pil del mondo».

Non è detto che i quarantamila sotto il palco lo prendano per oro colato, ma in fondo nemmeno ce n'è bisogno: basta loro, probabilmente, che finisca la stagione del «no» a tutto, degli affari e degli appalti visti come trame di Satana, delle Olimpiadi rifiutate con spregio, dell'esperienza e della culture viste come peccato capitale. Anche oltre le sue colpe, Chiara Appendino si trova a rispondere di una stagione che doveva essere luminosa e si è fatta bruscamente grigia e cupa. Eppure la piazza non urla slogan contro di lei, non chiede la sua testa.

Le basterebbe forse che là, nel grande palazzo in fondo alla via, una luce si accendesse.

Commenti