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Torna lo strapotere dei giudici sul lavoro

Torna lo strapotere dei giudici sul lavoro

Jobs act addio. Il capitolo licenziamenti illegittimi, già terremotato più volte, viene riscritto dalla Corte costituzionale. La forchetta amplissima dei risarcimenti, da 6 a 36 mensilità, enormità senza eguali in Europa, non basta secondo la Consulta che elasticizza un sistema già superelastico. Dunque, l'Alta corte scardina il principio della sola anzianità di servizio per calcolare gli indennizzi su quel display dalla tastiera sterminata e aggiunge, invocando il principio di ragionevolezza - ma la ragionevolezza rischia di diventare una filastrocca buona per tutte le stagioni - altri criteri in un campo già affollato. Per esempio i motivi discrezionali sottesi al licenziamento, oppure i carichi familiari. La riforma, magari ruvida, voluta da Renzi per semplificare e velocizzare il sistema viene rottamata insieme al suo ideatore. C'era, non nella preistoria ma fino al 7 marzo 2015, il sistema Fornero; poi arrivò il jobs act e poi, in luglio col decreto Dignità, il metodo Di Maio. Altro giro di valzer, questa volta con il timbro della Consulta che motiverà il provvedimento, per ora noto solo attraverso un comunicato, nelle prossime settimane.

Ma un fatto è certo: la legislazione del lavoro, già contorta, disegna un tornante, si complica ancora di più e consegna un pesantissimo boccino al giudice di turno che dovrà valutare numerosi fattori e avrà fra le mani la bacchetta magica della discrezionalità.

«Le multinazionali sono preoccupate - spiega Cesare Pozzoli, avvocato lavorista con clientela di rango internazionale - perché questo sistema costringe le imprese a una continua gimkana. Tanto per cominciare il giudice può stabilire un risarcimento modesto, pari a 6 mensilità, ma può salire fino a quota 36. Tanti imprenditori stranieri mi confidano che sarebbe meglio, molto meglio, un indennizzo fisso anche relativamente alto, sulle 20 mensilità, che non questa oscillazione da un estremo all'altro».

Ma questo è solo l'incipit: ora i criteri si moltiplicano e il percorso si fa sempre più accidentato. «In questo momento - riprende Pozzoli - convivono almeno dieci sistemi diversi per gestire i licenziamenti. Bisogna vedere se il lavoratore è dentro il perimetro della pubblica amministrazione o ne è fuori; poi ci sono paletti diversi fra la piccola impresa, fino a 15 dipendenti, e la media e grande impresa. E poi ci sono le coordinate temporali: si deve considerare se il lavoratore è stato assunto prima del 7 marzo 2015 o dopo, e se è stato licenziato prima o dopo il 14 luglio 2018; o se oggi pendono ancora cause o termini di impugnazione del licenziamento, che sarà regolato dalla sentenza della Consulta, destinata ad avere effetto anche sui rapporti ancora in corso». Insomma, un ginepraio; e vallo a dire a quelli che ripetono: la nostra legislazione del lavoro è intraducibile in inglese. E regole, regolette ed eccezioni costituiscono un rompicapo che scoraggia gli investimenti.

Ma c'è un altro paradosso, nell'eterno duello fra flessibilità e precarietà: «I nuovi assunti, con più frecce al loro arco - conclude Pozzoli - sono e saranno più tutelati di quelli che vantano una maggiore anzianità di servizio. Qualcosa non quadra rispetto agli obiettivi fissati tre anni fa e al tentativo di tenere il passo di un mercato sempre più mobile e rapido».

Risultato: il sistema che doveva essere modernizzato è sempre più ingessato e difficile da interpretare, le trattative fra imprese e lavoratori si spostano sempre più verso le aule di giustizia, con i loro tempi e i loro riti, ma sopratutto la calamita Italia perde giorno per giorno la sua carica attrattiva.

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