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Trattati come bestie: l'inferno dei cristiani tra scafisti e torture

I respingimenti turchi e le decapitazioni in Libia: le mille tragedie dei profughi. L'Italia deve assicurare un "corridoio"

Trattati come bestie: l'inferno dei cristiani tra scafisti e torture

Sono i reietti tra i reietti. Sono i cristiani in fuga da Asia ed Africa, ma anche i loro confratelli d'Irak e Siria. Per loro anche l'esodo, anche la resa, anche l'addio al proprio Paese può diventare una sentenza di morte. Lo sanno bene parenti e confratelli dei cristiani, eritrei, etiopi ed egiziani decapitati o uccisi dallo Stato Islamico in Libia. Te lo raccontano gli assiri cristiani di Qamishli, la città del Nord-Est siriano circondata dal Califfato e ingabbiata, dall'altra parte, dalle frontiere sbarrate di una Turchia complice degli jihadisti. Solo per questo l'Italia, Paese sede e simbolo della Cristianità, dovrebbe muoversi, garantire una via di fuga, a chi, pur credendo nel nostro stesso Dio, non può sperare d'imbarcarsi su un barcone libico e rischia la testa quando tenta d'avvicinarsi al confine turco.

Per capire quali siano le spade di Damocle sospese sui cristiani in fuga basta rileggere le cronache. La vicenda più crudele resta quella dello scorso 14 aprile quando su un barcone salpato da Tripoli un gruppo di migranti musulmani circonda dodici cristiani provenienti dalla Nigeria e dal Ghana. Gli aggressori arrivano dal Mali, il Paese africano dove la Francia ha dovuto lanciare un operazione militare per mettere fine all'egemonia islamista sulle regioni settentrionali. Su quel barcone il passaggio dagli insulti all'aggressione fisica è questione di pochi minuti. E così mentre l'imbarcazione rolla tra le onde dodici cristiani vengono gettati fuoribordo, abbandonati tra i flutti. Gli altri si salvano dalla spietata esecuzione solo formando una catena umana e opponendo un abbraccio di massa all'odio. Che la Libia fosse una strada per il patibolo lo si era capito già a febbraio quando lo Stato Islamico aveva diffuso il video della decapitazione di 21 egiziani cristiano copti sulle coste di Sirte. Un orrore replicato ad aprile con l'esecuzione di una trentina di etiopi cristiani. E seguito a giugno dall'uccisione di due cristiani eritrei e dal rapimento di altri 75. La Libia, principale via di fuga per i migranti del resto d'Africa e del Medioriente, diventa dunque una pista della morte quando ad attraversarla sono i cristiani. La prima a denunciarlo è Amnesty International . «I migranti e i profughi cristiani in Libia - scrive l'organizzazione in un rapporto dello scorso maggio - sono particolarmente a rischio perché in balia dei gruppi armati decisi ad imporre la propria interpretazione dell'Islam. In Libia i cristiani, nigeriani, egiziani, eritrei ed etiopi sono stati rapiti, torturati, uccisi o maltrattati a causa del loro credo».

Dimenticata la trappola per topi chiamata Libia ai cristiani in fuga non restano molte alternative. Quelli d'Irak, abituati un tempo a cercar rifugio in Siria sono fortunati quando riescono a trovare un passaggio certo per la Turchia. E anche i cristiani di Siria, abituati un tempo ad espatriare attraverso il Libano, possono soltanto sperare di seguir la stessa rotta. «Da qualche mese il governo di Beirut ha smesso di concedere visti ai siriani e quindi noi cristiani possiamo solo sperare di raggiungere la Turchia» spiega monsignor Jean Abdo Arbach, arcivescovo melchita di Homs. Affrontare la rotta turca significa però muoversi lungo territori controllati dai gruppi jihadisti o dallo stesso Stato Islamico. E rischiare anche qui di venir rapiti o sgozzati. «Alcune famiglie sono partite e non sono mai arrivate - spiegava a il Giornale Kevor, un insegnante assiro cristiano incontrato mesi fa a Qamishli, la cittadina all'estremo Nord Est della Siria circondata dallo Stato Islamico - Per noi la fuga diventa spesso una trappola. Quando esci dalla città devi attraversare i villaggi musulmani e li non sai mai cosa succederà. La gran parte degli abitanti sono buona gente. Prima della guerra non c'erano mai problemi. Oggi fanno i conti con la pressione e le minacce dello Stato Islamico che s'infiltra tra di loro. E così se ti riconoscono come cristiano può capitare che ti segnalino. Allora la tua sorte e quella della tua famiglia è segnata.

Quelli con le bandiere nere ti aspettano sulla strada e non ritorni mai più».

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