Guerra in Israele

La triste immagine di un'Europa divisa

Solo 9 Paesi su 27 hanno chiuso le frontiere. Non bastano le guerre per trovare unità

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L'immagine è quella di uno sfarinamento, di un'Unione Europea che di fronte a due guerre e all'instaurazione di un nuovo ordine mondiale - ormai l'espressione è di moda - procede in ordine sparso. Nove paesi su 27 hanno sospeso il trattato di Schengen, in altre parole hanno rintrodotto i controlli alle frontiere per evitare l'infiltrazione sul proprio territorio di terroristi della jihad o dell'Isis come conseguenza della crisi medio-orientale: una misura che dovrebbe essere presa da tutti gli stati membri per mettere in sicurezza l'intero territorio europeo visto che, come dimostra l'ultima tragedia, i fanatici dell'Islam entrano dall'Italia, colpiscono in Belgio e le vittime sono svedesi; e, invece niente, dato che non c'è condivisione, se si guarda la cartina del continente dal punto di vista dei livelli di allerta appare a macchia di leopardo. Eppure la circostanza che il giorno dell'attentato a Bruxelles ci fosse un grado di attenzione «medio», mentre a Parigi «massimo» dovrebbe suscitare una riflessione.

Sul conflitto ucraino l'atteggiamento è più o meno identico. Orban, reduce dalla stretta di mano con Putin a Pechino, potrebbe bloccare l'ottava tranche di 500 milioni di euro di aiuti militari a Kiev e, probabilmente, altri 20 miliardi che aveva proposto il commissario Borrell. Insomma, il presidente ungherese gioca un'altra partita, figurarsi cosa succederà quando dal primo luglio del 2024, cioè mentre la campagna presidenziale negli Usa entrerà nel vivo, l'Ungheria avrà la presidenza di turno dell'Unione.

Siamo di fronte ad una triste realtà e finché non si stabilirà che le decisioni possono essere assunte a maggioranza, facendo venir meno il diritto di veto, l'Europa apparirà come un gigante dai piedi di argilla. Non riuscirà a far pesare sul piano internazionale neppure gli sforzi che compie o in favore dell'Ucraina, o in favore di Israele per la patologia più grave che può colpire un'Unione di Stati: una divisione congenita. Una sindrome che ne inibisce ogni capacità d'influenza. Una malattia che può essere curata con snervanti mediazioni e impossibili compromessi in una situazione normale, ma che diventa una patologia letale quando l'Europa deve vedersela con due guerre, una al Nord e una al Sud, ed è ridotta ad un ruolo comprimario in quella fase caotica e pericolosa che il Pontefice ha ribattezzato terza guerra mondiale «a pezzi». A quel punto il pericolo può diventare mortale.

Ecco perché si pone un interrogativo di non poco conto sul futuro dell'Unione specie in vista di nuove adesioni: è più forte e conta di più un'Europa piccola e compatta, o un'Europa più grande ma divisa? Non è questione di poco conto. Specie in una fase di cambiamento profondo degli equilibri internazionali in cui la politica estera non può essere lasciata all'inerzia e ai tempi biblici a cui ci ha abituato l'Unione perché è essenziale. Ed è una riflessione fondamentale quando stiamo scoprendo che per avere un ruolo nel nuovo ordine mondiale la scelta europeista non ha alternative.

Solo che c'è bisogno di un'Europa che sia capace di decidere o diventando più piccola ma più omogenea, ad esempio, nella politica estera, di difesa e di sicurezza; oppure dandosi nuove regole (a cominciare dalle decisioni a maggioranza) che gli consentano davvero di essere un soggetto unito e influente sul piano internazionale.

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