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Per Trump è l'ora di dimostrare che non è Obama

Per Trump è l'ora di dimostrare che non è Obama

Se è vero che per il presidente russo Putin il destino della Siria rappresenta il campo di prova delle sue ambizioni, è altrettanto vero che in quel pezzo di Medioriente Donald Trump, il presidente che ha giurato di rifare grande l'America, si gioca una fetta rilevante di credibilità. E se è vero che il leader del Cremlino sembra avere obiettivi più chiari, è altrettanto vero che quello della Casa Bianca dispone di mezzi militari ed economici assai superiori oltre che (almeno sulla carta) di alleati più forti.

Ciò premesso, definire le ragioni precise per cui Trump - che solo pochi giorni fa aveva anticipato con i suoi soliti toni categorici l'intenzione di ritirare le forze militari Usa dalla Siria - ha deciso di colpire duramente il regime di Bashar Assad non è facilissimo. I maligni sospettano che stia solo cercando di far dimenticare i suoi problemi col Russiagate e certe pornostar. Piacerebbe invece pensare che, al di là delle affermazioni di principio sull'uso dei gas da parte del regime di Damasco, Trump abbia deciso di compensare gli otto anni di disastrosa passività strategica di Obama in Medioriente, di cui così volentieri ha approfittato Vladimir Putin per lanciarsi in un'avventura che è pericolosa proprio perché è superiore ai suoi mezzi. Ma per l'appunto stridono con questa ipotesi le recenti dichiarazioni di Trump su un prossimo ritiro Usa dal teatro siriano: a meno che non abbiano visto giusto quegli analisti che ritengono che con quell'annuncio il calcolatore Trump non abbia in realtà fatto che alzare il prezzo della sua permanenza, da far magari pagare in petrodollari agli alleati sauditi così bisognosi del suo sostegno contro l'Iran.

Se è così, siamo all'inizio di una confrontazione molto pericolosa tra russi e americani. O se si preferisce, siamo arrivati al redde rationem di una situazione che si incancreniva da anni. Perché al saldarsi in Medioriente di un'alleanza bellicosa tra russi, iraniani, siriani e hezbollah libanesi (senza dimenticare il ruolo dei turchi, sempre più vicini a Mosca pur restando nella Nato) è inevitabile che risponda un fronte altrettanto articolato che infatti si è già delineato con Stati Uniti, Israele, Arabia Saudita ed emirati del Golfo.

È probabile che a un Trump più versato in questioni economiche e di politica interna questi concetti siano stati inculcati dai generali ai quali, fin dall'inizio della sua amministrazione, ha volentieri delegato i temi internazionali. Né sembra casuale la recente scelta di John Bolton per il posto di consigliere alla Sicurezza nazionale: tra le priorità di Bolton c'è lo smantellamento dell'intesa sul nucleare iraniano voluta da Obama.

E l'Iran è un perno fondamentale di quell'alleanza costruita da Putin in Medioriente cui Trump deve rispondere ora o mai più.

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