Politica

La Turchia svuota le carceri per imprigionare i golpisti

Liberati 38mila: agli oppositori il «sultano» preferisce ladri e assassini, che non gli creano problemi politici

I l Sultano turco scarcera 38mila delinquenti per riempire le celle di dissidenti. L'annuncio è di ieri, ma dov'è la novità? Rappresenta la prova che si aspettava per iscrivere Recep Tayyip Erdogan nel libro nero dei despoti. I dittatori hanno questa caratteristica: preferiscono di gran lunga ladri e assassini ai propri avversari politici, veri o presunti che essi siano. Vogliono questi ultimi in galera, torturati o meglio ancora morti. La marmaglia scorrazzi pure impunita e grata al governo. La ragione è assai comprensibile: è difficile che un violentatore seriale o un massacratore di vecchiette minacci l'incolumità e il potere del Capo e della sua famiglia.

Sia chiaro: qui non si tratta di negare che ci sia stato un tentato colpo di Stato e che abbia causato dei morti. Ed è ben diritto di una democrazia (Erdogan è stato eletto regolarmente) difendersi e processare i sovversivi in armi. Ma la misura della repressione e i modi adoperati per stroncarla sono tali da incidere molto più in là delle cellule cancerose, fino a strappare l'anima stessa di una comunità. Le accuse sono di omicidio e di terrorismo e basta essere stati professori in una scuola ideologicamente diversa dall'ortodossia del partito dominante, oppure aver partecipato a un comizio, a un pranzo, aver acquistato un giornale per essere compreso nella schiera dei malfattori. Si noti la lungimiranza perfida. Finora gli arrestati sono diecimila. Gli altri 28mila chi saranno? La questione è questa: una volta che prende la rincorsa il treno con la grande ruota rossa di sangue, non si ferma, macina e macina corpi e anime.

È la lezione della storia. Stalin (il quale amava circondarsi di veri e propri banditi, che poi fece liquidare con nove grammi di piombo nella nuca, quando cominciarono ad avere idee politiche), detto Koba il Terribile (era il suo nome di battaglia), sapeva molto bene che non ci si poteva fermare. Aveva cominciato già Lenin. Stalin perfezionò il meccanismo, senza neppure metterci troppa forza. Uomini fidati (che poi liquidò, sia chiaro) mandarono gente incappottata a bussare di notte e a portar via sistematicamente i sospetti, i quali spesso diventarono rei confessi e delatori credendo di salvarsi la vita, in un cerchio sempre più largo di gente afferrata per il bavero e sparita. E poi via nei Gulag, alla Kolyma in Estremo Oriente, alle Isole Solovki nell'Artico. Nel periodo d'oro dieci milioni (anni Trenta). Ma ancora a metà anni cinquanta circa 3 milioni. Ingegneri, sacerdoti, scienziati, medici, quadri di fabbrica, ufficiali dell'esercito, aviatori, sportivi finirono nei lager o direttamente ammazzati senza processo. Poi bastò l'rigine sociale. Così come per Hitler e i nazisti fu sufficiente la razza, senza neppure bisogno di supporre un pensiero.

La storia dei regimi dittatoriali insegna che a comandare nelle carceri, in strana alleanza con gli agenti penitenziari e i pm sopravvissuti alle purghe, non saranno i detenuti politici ma i comuni, consorziati in bande, delatori senza onore. In un imbarbarimento contagioso che capovolge lo stato di diritto e la coscienza civile fuori da quelle mura.

Per questo ci spaventa quello che accade in Turchia. Con essa dobbiamo fare pragmaticamente i conti. Ma non possiamo oggi foraggiare un regime così. Neppure per ospitare i fuggiaschi dalla Siria. E tanto meno per conservare nel suo territorio decine di ogive nucleari della Nato. Bisogna trattare con il suo leader, certo.

Nella consapevolezza della malattia tremenda che si è impossessata di Erdogan e della sua cerchia fumigante odio: ed è la febbre dei tiranni vittoriosi, che si sentono bellissimi per l'aura di terrore che li circonda. Dio ce ne scampi

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