Politica

Ungheria senza quorum Il referendum fa flop

Fallisce la consultazione voluta dal premier Orbán contro le quote Ue. Ma il 98% dei votanti dice no

di Livio Colombo

P er Viktor Orban è stata al massimo una vittoria a metà, o addirittura una mezza sconfitta. Come ci si aspettava, più del 98% dei cittadini che si sono recati alle urne hanno votato no alla domanda «Vuoi che l'Unione Europea abbia il diritto di ordinare la rilocalizzazione coercitiva di cittadini non ungheresi in Ungheria senza il consenso del Parlamento?». Ma circa il 56,5% degli elettori, sollecitati dai partiti di opposizione o semplicemente disinteressati alla vicenda (le percentuali dei votanti in Ungheria sono tradizionalmente sotto la media europea, tanto che solo il 48% si espresse a suo tempo per l'adesione alla Ue) sono rimasti a casa, togliendo al referendum quel valore legale che il premier contava di dargli, per acquisire maggior forza sia nella guerra contro Bruxelles sia in quella per la leadership dei Paesi dell'Est. I risultati definitivi si conosceranno solo mercoledì, ma non ci sono più dubbi.

Orban si è impegnato a fondo nella campagna, facendo mandare fino all'ultimo una valanga di Sms (risultati alla mano, sui migranti ha dichiarato che la «Ue non può costringerci ad accettarli»). Ieri mattina, un suo editoriale sul maggiore quotidiano nazionale agitava lo spauracchio di «milioni di africani insediati nel vecchio continente che metteranno fine alla pace, all'ordine, alla sicurezza e al benessere, portando invece il caos, la tensione, il conflitto, la violenza e la povertà» e per buona misura aggiungeva che il Paese si trovava a un passaggio cruciale per la difesa dell'identità cristiana. Si trattava chiaramente di una forzatura, visto che il programma di distribuzione di 160.000 profughi oggi in Grecia e in Italia tra i 27 membri dell'Unione oggetto del referendum - ne assegna all'Ungheria solo 1.350, che si aggiungono ai circa 500 cui il governo ha finora concesso asilo politico (su una popolazione di 10 milioni). Ma i seguaci del Fidesz, il partito nazional-conservatore del premier e quelli del partito di estrema destra Jobbik hanno egualmente risposto all'appello. Non è bastato, e adesso i suoi oppositori chiedono addirittura le sue dimissioni. Ma possiamo essere certi che, nel discorso che terrà oggi in Parlamento, sin guarderà bene dal darle; né ci sono probabilità che egli rinunci ad estendere la barriera di filo spinato costruita ai confini con Serbia e Croazia, dando il via alla politica dei muri, anche alle frontiere con la Romania e la Slovenia, che potrebbero diventare la nuova «via balcanica».

L'Unione Europea attende ora di vedere che cosa Orban intende fare con il suo bicchiere, a seconda dei punti di vista mezzo vuoto o mezzo pieno. Sull'argomento il governo ha mantenuto finora un alone di mistero. Il «no» al piano europeo, anche se pronunciato da meno di metà della popolazione, permetterà al premier di continuare la sua battaglia, ma è dubbio che osi arrivare a una rottura completa con l'Unione, che potrebbe costargli una procedura di infrazione e soprattutto la sospensione dei fondi strutturali essenziali all'economia del Paese. Sicuramente, il premier cercherà di approfittare del voto per consolidare sia il suo potere interno, ultimamente un po' vacillante, sia la sua capacità negoziale con l'Europa. Ma, sebbene i numeri dell'Ungheria siano trascurabili, la Commissione non può accettare che un Paese trasgredisca formalmente a un accordo tra i 27, creando un pericoloso precedente.

Dietro l'Ungheria, ci sono infatti gli altri tre Paesi del patto di Visegrad Cechia, Slovacchia e Polonia - e un buon numero dei partiti populisti in ascesa in tutta Europa.

Con il problema dei migranti destinato a durare nel tempo, specie se la Turchia venisse meno ai suoi impegni riaprendo, nonostante le barriere, le sue frontiere, il referendum, pur non avendo raggiunto il quorum, avrà il suo peso anche fuori dai confini ungheresi.

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