Economia

Troppo tardi, il capitalismo italiano è cambiato

La vecchia diarchia Mediobanca-Intesa è superata, anche se Bazoli resiste

Troppo tardi, il capitalismo italiano è cambiato

C'è qualcosa di antico nell'uscita di ieri di Matteo Renzi sui «soliti noti» che vanno nei «salotti buoni» a fare affari in un «capitalismo di relazione», di cui il Paese dovrebbe liberarsi una volta per tutte. Forse il concetto sarebbe andato bene un paio d'anni fa. Perché da allora ne è passata di acqua a sciacquare i salotti cui accenna Renzi. Che devono intendersi quelli classici che si contrapponevano nella spartizione della finanza italiana. Per semplificare, parliamo della laica Mediobanca di Enrico Cuccia e della bianca Banca Intesa di Giovanni Bazoli, intorno alle quali orbitavano Unicredit, Generali, il Corriere della Sera (Rcs), Pirelli, Cir, Telecom e pure la Fiat.

Ebbene, sono almeno due anni che questo sistema di relazioni è in disfacimento. Mediobanca ha nel suo piano industriale l'uscita dai patti di sindacato e la cessione di ogni partecipazione tranne quella nelle Generali. In quest'ultima per la prima volta è stato nominato nel 2012 un manager esterno, Mario Greco, per di più renziano, che non risponde a logiche di grandi soci e che allo stesso modo è uscito dai patti e si è disimpegnato dalle operazioni di sistema. Le due grandi banche italiane, per anni guidate anche secondo le logiche di potere da due manager come Corrado Passera (Intesa) e Alessandro Profumo (Unicredit) sono oggi nelle mani di due manager più giovani e tenuti (anche per gli effetti della crisi) solo a far quadrare i conti, quali Carlo Messina e Federico Ghizzoni. Nello stesso tempo hanno lasciato la scena grandi volponi quali Antoine Bernheim, Cesare Geronzi, Franco Bernabè o Luca Cordero di Montezemolo. Pirelli è tornata a occuparsi solo di pneumatici, Fiat, nelle mani di un manager autonomo e forte quale Sergio Marchionne, si fonde con Chrysler e va in Olanda, Telecom sta trattando in questi giorni l'ingresso nel capitale del gruppo francese Vivendi. Il gruppo Cir-De Benedetti, dopo il fallimento dell'avventura nell'energia di Sorgenia, ha ormai poco di industriale e l'Ingegnere si occupa essenzialmente dell'editoria nel gruppo Espresso. Che, tra l'altro, esprime con Repubblica il quotidiano più vicino a Renzi: difficile pensare che il rottamando sia proprio De Benedetti.

L'unico appiglio, a questo punto, è quello che ci serve da mesi uno degli imprenditori vicini al presidente del Consiglio: Diego Della Valle. Uno seriamente fissato con i «soliti noti». Due in particolare: Giovanni Bazoli, presidente di Intesa, e John Elkann, presidente della Fiat. Il primo è l'«arzillo vecchietto» di tante invettive di Della Valle, che ancora nel giugno scorso diceva se «Bazoli avesse un po' di dignità dovrebbe dimettersi e chiedere scusa agli italiani». Il secondo è «il ragazzino che ancora deve imparare a lavarsi i denti» e che «non perde mai tempo di ricordare agli italiani che è un imbecille». Il salotto buono dove i due si ritrovano è quello del Corriere della Sera , dove Della Valle, pur avendo investito un'ottantina di milioni per circa l'8%, tocca palla poco o niente. Allora per il premier una logica ci sarebbe: colpire il quotidiano della grande borghesia del nord che più di tutti è scettico, quando non avverso, verso la politica del governo Renzi.

Dopodiché tutto è relativo. Il premier, per esempio, è accusato di avere nel suo stesso salotto gli uomini della seconda banca d'affari del mondo, JpMorgan, che da un paio d'anni gli detterebbe l'agenda. Mentre uno come Massimo D'Alema lo individua come il terminale scelto dai poteri forti per liquidare la sinistra.

Una cosa sola è certa: tirare fuori l'ormai vecchio ma efficace ritornello dei salotti buoni funziona bene.

Commenti