Mondo

Le vedove dell'Isis al patibolo. I 10 minuti per salvarsi la vita

Già condannate oltre 40 donne. Arrivano da Europa, Asia e Turchia. Abbandonate dai loro Paesi di origine

Le vedove dell'Isis al patibolo. I 10 minuti per salvarsi la vita

Dieci minuti per salvare la pelle. È il tempo concesso alle vedove nere, alle donne dello Stato islamico. Dieci minuti da trascorrere in piedi dentro la gabbia di legno allestita per loro in un'aula fortificata del Tribunale di Bagdad. Dieci minuti in cui trovare le parole giuste per convincere i giudici d'aver diritto a vivere, di cullare i proprio bambini, di rifarsi una vita dietro le sbarre. Ma non è una partita semplice. Per molte di loro conquistarsi l'ergastolo anziché la forca è più difficile che imbroccare un numero alla roulette o quattro assi a un tavolo di poker. Perché in quell'aula di Tribunale la regola non è la giustizia né, tantomeno, il perdono o la compassione. Lì non si punta alla redenzione, ma al castigo di chi ha terrorizzato il Paese, di chi ha ucciso senza pietà, di chi ha trasformato i propri figli in assassini. Per questo pietà l'è morta. Per questo le 40 condanne capitali comminate fino a oggi ad altrettante mogli o figlie di militanti del Califfato non sono motivo di turbamento, ma di orgoglio. Sia per i giudici, sia per l'opinione pubblica irachena. Almeno per quella schierata con il governo e con la maggioranza sciita al potere. Un'opinione pubblica convinta che la follia del Califfato potrà esser dimenticata e superata soltanto cancellandone il più in fretta possibile memoria e protagonisti. Per questo la partita è solo all'inizio. La lunga fila di prigioniere in attesa di giudizio comprende almeno un migliaio di donne. Ma altre ne arrivano perché ogni giorno polizia ed esercito catturano altre fuggitive. Per tutte loro quella gabbia di legno è l'ultimo miglio su cui correre tra vita e morte. In dieci minuti devono trovare parole ed argomenti per risvegliare dall'apatia i loro tre giudici, per instillare nei loro animi coriacei, nelle loro orecchie annoiate una scintilla di compassione o comprensione. «Lavoro qui da 10 anni e mi basta guardarle negli occhi per capire chi è colpevole o innocente» spiega senza troppi giri di parole uno dei tre magistrati chiamati a pronunciarsi sul destino delle vedove nere.

La partita più difficile è quella giocata dalle straniere. Per loro pietà l'è morta due volte. Pur di partecipare all'orrore, pur di abbracciare un marito terrorista e una fede scellerata hanno abbandonato i loro Paesi e le loro famiglie. Per questo agli occhi dei giudici e di gran parte degli iracheni sono doppiamente colpevoli. Ma lo sono anche agli occhi delle autorità dei Paesi d'origine. Francia e Inghilterra, ad esempio, non muovono un dito per averle indietro. Salvarle, aiutarle riportarle a casa significherebbe occuparsi di centinaia di bimbi allevati nell'orrore, centinaia di bimbi che potrebbero diventare nuovi mostri. È il caso di Djamila Boutoutao, una 29enne cittadina francese arrivata a Mosul nel 2014 assieme al marito Mohammed Nassereddine e a due bambini. «Sto diventando matta» confessa mentre assiste alla partita delle altre imputate, mentre riflette sul proprio destino, mentre studia e prepara quei suoi dieci fatali minuti in cui tra qualche giorno dovrà sceglier le parole giuste e giocarsi il tutto per tutto. «Il problema ammette - è che non so cosa sia peggio.

Non so più se sia meglio battermi per la forca o per l'ergastolo».

Commenti