Economia

Venti milioni ai vertici mentre le banche andavano a fondo

Stipendi gonfiati e immobili in regalo. Così sono nati i quattro crac. Solo Etruria pagò compensi per 14 milioni ma ne perdeva 300

Venti milioni ai vertici mentre le banche andavano a fondo

Etruria, Banca Marche, CariFerrara, CariChieti. Quattro banche travolte da un insolito destino nel mare d'inverno in cui rischia di affondare il rapporto di fiducia fra clienti e sistema creditizio. Tutte rimaste ostaggio di interessi di bottega, inciuci immobiliari, crediti offerti con disinvoltura agli amici degli amici e di interferenze da parte dei potentati di campanile. Tutte fallite, se non fosse arrivato il paracadute del governo. E non per colpa della crisi.

Nel caso dell'Etruria le magagne vengono battezzate da Bankitalia come «carenze nei controlli interni, nel controllo del credito, violazioni in materia di trasparenza nonchè omesse e inesatte segnalazioni all'organismo di vigilanza». Che si traducono in finanziamenti senza ritorno: dal caso del finanziamento all'«Acquamarcia» di Caltagirone per il porto di Imperia mai rimborsato (almeno una ventina di milioni persi) agli altri prestiti di dubbia affidabilità. Come quello al mega-Yacht tuttora in costruzione nel porto di Civitavecchia, o concessi ad aziende aretine in difficoltà: dal gruppo Mancini, a Cantarelli, dalla Del Tongo alla vecchia UnoAerre. Non solo. Più peggiorava la riscossione dei crediti e più la banca cercava di rimediare acquistando titoli di Stato. Il fatto è che tra il 2009 e il 2014 i consiglieri d'amministrazione e i sindaci si sono dati 14 milioni in emolumenti mentre la banca aveva perdite cumulate per 300, secondo i calcoli del sito Truenumbers.it. Due procure (Ancona e Roma) indagano su Banca Marche.

Quella che un tempo era il polmone finanziario di una regione industriosa. Negli anni Bankitalia ha più volte alzato il cartellino giallo contro i vertici dell'istituto, ottenendo però solo girandole di nomine e dimissioni. Il problema della banca era principalmente uno: la concentrazione degli impieghi sull'immobiliare, con progetti faraonici basati su valori di mercato stratosferici, in cui gli imprenditori non si assumevano alcun rischio, che cadeva invece interamente sull'istituto. Il caso più clamoroso sarebbe quello di una compravendita di un immobile da sette milioni di euro tra una ditta riconducibile al gruppo Casale e un'azienda di familiari dell'ex direttore generale Massimo Bianconi, che passando tramite un finanziamento di banca Tercas (anch'essa finita sull'orlo del crac) e un precedente contratto di locazione, avrebbe fruttato al manager un incasso di 13mila euro al mese per 19 anni.

Eppure nel giugno 2011 il cda delibera di chiudere e riaprire il rapporto di lavoro con Bianconi con tanto di vivi rallegramenti finali. Un'interruzione di tre settimane che consente al manager di portarsi a casa 1,5 milioni di buonuscita. Bankitalia nel frattempo aveva emanato nuove norme sul Tfr dei dirigenti. Termine ultimo per l'applicazione: il primo di agosto.

Ovvero 24 ore dopo che venisse rescisso il contratto con Bianconi, che poi lascerà definitivamente l'istituto con in tasca altri 2,3 milioni di liquidazione. E le altre due piccole Casse di risparmio? Procura, guardia di finanza e carabinieri di Ferrara hanno acceso i riflettori sulla Carife: il filone principale verte sulla malagestione dal 2007 al 2013 e le procedure dell'aumento di capitale da 150 milioni varato nel 2011. Quanto a Carichieti, i commissari hanno chiesto all'ex cda e top manager di risarcire 208 milioni per «la prolungata mala gestio».

Si va da anomalie nei rapporti con l'ex Fondazione, all'apertura della filiale di Potenza che non sarebbe stata fatta nell'interesse aziendale.

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