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Da vetrina a disastro il semestre italiano alla guida d'Europa

Sul made in il governo ha alzato bandiera bianca. E su Mare Nostrum mancano risorse e volontà politica

Da vetrina a disastro il semestre italiano alla guida d'Europa

L' allarme risuona forte nelle stanze di Palazzo Chigi. A tre mesi dalla fine del semestre di presidenza europeo il governo Renzi rischia di uscire a mani vuote da quello che avrebbe dovuto rappresentare il palcoscenico della nuova centralità italiana. E salvo un'improvvisa e improbabile inversione di tendenza, togliere lo «zero» dalla casella dei risultati non sarà impresa facile.

Senza perdersi in strade secondarie, ci sono tre dossier strategici per l'Italia: il «Made In»; la suddivisione del peso dell'immigrazione con i partner europei, refrattari a ogni forma di condivisione degli oneri economici e sociali degli sbarchi; l'esclusione del cofinanziamento nazionale dei fondi Ue dal calcolo del rapporto deficit-Pil.

Sul «Made In» siamo ancora fermi al voto dell'Europarlamento della primavera scorsa a favore di un regolamento che imponga di specificare il Paese di origine dei prodotti non alimentari. Il problema, come sempre, è vincere le resistenze del Consiglio. Come ha raccontato la vicepresidente di Confindustria con delega per l'Europa Lisa Ferrarini il governo sembra aver alzato bandiera bianca mentre la Germania avrebbe blindato i suoi numeri in Consiglio. «Ho scritto a Renzi sul Made in, ma non ho ricevuto risposta» ha raccontato. «Forse il manifatturiero italiano non è uno dei suoi principali problemi. Danimarca, Germania e Olanda hanno chiesto uno studio di impatto per bloccare il processo di approvazione dell'origine della materia prima. Arriveremo presto alla presidenza lituana e questo significa rinunciare per sempre a ogni speranza. Ho la quasi certezza che su questo tema ci sia stato uno scambio per determinate caselle europee. La Germania ha posto il veto. Non ha interesse a scrivere sui suoi prodotti Made in Bulgaria o quello che è».

Semaforo rosso dai partner europei anche sull'immigrazione. Al di là del passaggio da Mare Nostrum a Frontex Plus - una «sostituzione» per la quale mancano risorse e volontà politica - il vero nodo è quello del Trattato di Dublino. Ma sugli accordi che fanno ricadere sullo Stato di primo approdo la responsabilità dell'accoglienza non si muove una foglia e il sistema di asilo unico europeo appare lontano.

A questo punto Graziano Delrio è pronto a giocarsi il tutto per tutto su un'unica partita: quella che punta a escludere il cofinanziamento nazionale dei fondi Ue dal calcolo del rapporto deficit-Pil, classificandoli come risorse a favore di investimenti, crescita e occupazione. In sostanza vorrebbe dire «liberare» 10 miliardi. Una battaglia per la quale Delrio sta cercando alleanze in vista del Consiglio coesione del 10 ottobre.

Ma c'è un altro nodo che si profila all'orizzonte. Con un bilancio Ue d'austerity per il 2015, c'è da risolvere il nodo del taglio di oltre un miliardo di impegni di pagamento che andrebbe a ricadere su chi deve ancora incassare i fondi per il 2007-2013. «Il semestre di presidenza è stato caricato di troppo attese» commenta Antonio Tajani. «In alcuni momenti lo si è vissuto come una panacea per i problemi del nostro Paese, mentre si tratta per lo più di un lavoro di routine. L'Italia avrebbe dovuto concentrare l'attenzione sul Made in e sulla riforma per rendere più flessibile la concessione dei visti per turisti extraeuropei in vista dell'Expo».

Sotto traccia, poi, ci si comincia a interrogare anche sul fiscal compact . La tagliola è pronta a scattare a inizio 2015. Un peso insostenibile al quale si potrebbe ovviare con un rinvio di imperio al 2017 come ha fatto la Francia. «Se l'Italia facesse così - spiega l'esperto di fondi europei, Andrea Del Monaco - rischierebbe sanzioni dello 0,3% del Pil, quindi circa 5 miliardi, con un deposito infruttifero presso la Bce, a fronte di tagli pari a 45 miliardi all'anno per 20 anni».

Soldi a fondo perduto, ma che potrebbero salvare l'equilibrio dei conti italiani.

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