Politica estera

Il voto farsa di Maduro per prendere la Guyana (e il nuovo fronte Usa)

"Sì" col 95% ad annettere Essequibo, regione ricca di petrolio. Pronta la richiesta di intervento agli States

Il voto farsa di Maduro per prendere la Guyana (e il nuovo fronte Usa)

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Quando si parla di appetiti territoriali dei tiranni, ci sono cifre che contano e altre che non hanno alcun valore. Nel caso del referendum (legalmente non vincolante, ma nella Caracas di Nicolàs Maduro di legale è rimasto poco) con cui gli elettori venezuelani avrebbero approvato a stragrande maggioranza la pretesa del dittatore erede di Chàvez di annettersi una vasta regione della confinante Guyana, il 95% di «sì» di cui si parla è irrilevante: potevano dire 90, 85 o 75, come alla tombola, vista la credibilità pari a zero (anche questo un numero interessante) della consultazione. È importante, invece, il numero 70: è la percentuale, più che cospicua, del territorio nazionale della Guyana che Maduro vuole incamerare, dandole il nome di Provincia di Essequibo. Una provincia, non a caso, ricchissima di petrolio recentemente scoperto e di altre ricchezze naturali come ferro e legname pregiato.

Ai dittatori, storicamente, piace tantissimo legare il proprio nome a conquiste territoriali. Solo in Sud America sono aperte a vario titolo contese del Suriname con la stessa Guyana (pure loro ne vorrebbero una fetta), del Perù con l'Ecuador, della Bolivia col Cile e dell'Argentina con il Regno Unito per le Falkland/Malvinas. Quella aperta da Maduro con la Guyana ex britannica (è diventata indipendente nel 1966) affonda le sue radici storiche alla fine dell'Ottocento, ma l'arbitrato internazionale che allora assegnò l'Essequibo a Londra adesso a Caracas non piace più. Dal punto di vista del caudillo rosso, le ragioni per tornare ad alzare la voce sono più che valide: nel Venezuela messo in ginocchio dalle ricette economiche chaviste sono imminenti le elezioni e, per quanto sia certo che saranno truccate, il rischio di una rivolta popolare espresso in varie forme è molto alto. Meglio ricorrere al vecchio trucco di inventarsi un caso internazionale che alimenti il patriottismo, tappezzando i muri delle città di manifesti con la mappa di un Grande Venezuela allargato a spese dello scalcagnato vicino orientale.

Il vero problema dell'avventura espansionistica minacciata da Maduro, però, è un altro. Caracas è partner minore di un Asse mondiale antioccidentale imperniato sul binomio ineguale Cina-Russia e di cui il Venezuela fa parte insieme con l'Iran, la Siria, la Bielorussia, Cuba, il Nicaragua e (sempre più visibilmente) la Corea del Nord. Maduro non fa di testa propria, semmai prende esempio (e molto probabilmente, in questo caso, ordini) da Mosca e da Pechino. L'esempio dell'invasione russa dell'Ucraina, di cui Putin si è già illegalmente annesso con referendum-farsa ampi territori occupati dalle sue truppe, e di quella che Xi Jinping minaccia apertamente ai danni di Taiwan senza dimenticare l'attacco a Israele orchestrato da Teheran ed eseguito dai suoi protetti.

In Guyana, se alle minacce seguissero i fatti (ma forse sarà un'intesa sottobanco tra Joe Biden e Maduro a sistemare le cose), potrebbe aprirsi un nuovo fronte caldo di quella «guerra mondiale a pezzi» ormai così reale da risaltare agli occhi di ogni osservatore di buon senso.

Più in generale, l'America Latina rischia di trasformarsi in un pericoloso teatro di confronto: sarà interessante osservare le prossime mosse di un Brasile sempre più vicino al nuovo Asse e di un'Argentina che invece, con il suo pittoresco neo presidente Milei, se ne vuole allontanare.

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