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Pomicino: ho visto me stesso nel Divo "Così il film mi ha allungato la vita"

L’ex ministro: "Il regista Sorrentino mi venne a trovare in ospedale nel 2006 pensando che stessi per morire: così non avrei mai più potuto contraddirlo". E rivela: "Inquietante quell'ipotesi sul delitto Falcone"

Pomicino: ho visto me stesso nel Divo 
"Così il film mi ha allungato la vita"

Vedersi in un film da vivo è un’esperienza particolare e in qualche maniera anche un privilegio. Anche perché essendo ancora in vita si può criticare la rappresentazione dei fatti e della propria persona. Quando ho visto il film del simpatico e talentato Paolo Sorrentino sulla vita di Giulio Andreotti e della sua corrente (Il Divo) mi è subito venuta in mente una malizia tutta andreottiana. Vuoi vedere, mi sono detto, che il mio giovane concittadino quando mi è venuto a trovare nell’autunno del 2006 al Policlinico San Matteo pensava che io morissi di lì a poco e che pertanto qualunque cosa avesse raccontato nessuno mai avrebbe potuto contraddirlo visto che in genere il mio amico Andreotti si limita sì e no a qualche battuta? Un pensiero malizioso, naturalmente, subito scacciato da una considerazione. Sorrentino è un napoletano e quindi sa che ogni previsione di morte, allunga la vita. Ed allora il mio primo sentimento ora è quello di ringraziarlo. Detto questo, però, quel che più mi colpisce è che Sorrentino ha perso un’occasione, quella cioè di dare una lettura critica della storia italiana e della sua democrazia oggi rapidamente in picchiata. Nessuno più di me, vista la mia tradizione familiare, sa che non si può mettere sulle spalle di un film e di un regista di talento l’onere di una fedele ricostruzione della storia patria. Se, però, si mette mano ad un racconto sul più grande partito della storia d’Italia, la Democrazia cristiana, e su uno dei suoi più autorevoli leader come Giulio Andreotti è difficile sfuggire ad un obbligo verso il Paese. Un obbligo che non è quello di sposare la nostra tesi o quella di altri, ma è quello di non tacere episodi fondamentali degli ultimi trent’anni. La mafia, la Loggia P2, la lotta del Pci di Violante contro Giovanni Falcone, l’intreccio dei poteri economici, i servizi deviati e via di questo passo, non possono essere raccontati con allusioni, omissioni e caricature oscillanti tra oniriche ispirazioni felliniane e attrazioni da Bagaglino. Chi mette mano alla storia del Paese deve farlo con un rigore culturale costruendo poi su di esso quel soffio vitale che solo grandi artisti possono dare. Sarebbe lungo scendere nel dettaglio dei tanti episodi raccontati e ci limitiamo a citarne solo uno riservandoci di ritornare sui vari argomenti in altra occasione. È mai possibile immaginare che quando la Dc nel passato ha visto cadere sotto il fuoco del brigatismo rosso o della mafia suoi grandi dirigenti, da Aldo Moro a Piersanti Mattarella, altri suoi uomini vengano indicati come i mandanti occulti di quelle morti? Agli artisti e all’informazione tutta va lasciata piena libertà di pensiero, naturalmente, ma come disse Ugo La Malfa a Montecitorio nelle ore successive al rapimento di Moro, l’unica libertà che non possiamo consentire è quella di uccidere la libertà e la democrazia. E, piaccia o no, da quando la Dc è scomparsa la nostra libertà si è lentamente ridotta e oggi il vero tema sul tappeto è proprio una nuova grande questione democratica.

Ma di questo torneremo a parlare anche con il giovane talento di Paolo Sorrentino che pure in alcune scene finisce comunque per sollevare interrogativi inquietanti come quello dell’azione della mafia per impedire con la morte di Falcone l’elezione di Andreotti alla presidenza della Repubblica.

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