Politica

Da presidente a capofazione, ora si dimetta

Caro direttore,
le scrivo per corrispondere ad un’urgenza personale, di cittadino prim’ancora che di dirigente politico: anzi, è giusto da parte mia chiarire che qui non esprimo una posizione ufficiale o formalizzata del Pdl.
La mia opinione è che Gianfranco Fini debba lasciare la presidenza della Camera, e anzi mi appare incredibile che non l’abbia ancora fatto, come avrebbe dovuto e potuto, se avesse voluto salvaguardare il decoro delle istituzioni e la sua personale credibilità politica.
È inaccettabile l’idea che si usi la terza carica dello Stato per condurre una battaglia faziosa, partigiana, a tratti perfino violenta. Nella complicata storia della nostra Repubblica, vi sono certamente stati casi in cui il presidente di una delle Camere si sia permesso un qualche sconfinamento: ma mai nessuno aveva osato trasformare una delle massime cariche istituzionali nel trampolino per condurre scissioni, per costruire una propria pattuglia politica e parlamentare, per scagliarsi quotidianamente e quasi programmaticamente contro uno schieramento politico, per alimentare una guerriglia degna di un capofazione. Il compito del presidente di un’assemblea parlamentare non è solo quello di applicare il regolamento, ma anche e soprattutto quello di rappresentare l’istituzione che guida e i suoi componenti (nessuno escluso!), rinunciando alla divisa del giocatore per indossare quella del garante. La divisione, il «pòlemos», lo scontro politico non possono appartenergli.
Ha fatto benissimo il ministro Bondi a ribadire l’incompatibilità tra questi due ruoli. E proprio qui sul Giornale, io stesso mi sono domandato cosa sarebbe successo se Nilde Jotti o Luciano Violante avessero provato a fare anche solo la metà delle cose di cui si è reso protagonista l’onorevole Fini. In questo caso, invece, troppi fanno finta di non vedere e di non sentire, e il silenzio di tanti giornalisti «indipendenti» o «maestri» del diritto costituzionale li qualifica per quello che sono: militanti politici come me. Con la differenza che costoro pretenderebbero di vedersi assegnata una patente di indipendenza e di terzietà che non meritano.
Ci sono poi, su un altro piano, la questione monegasca e la vicenda degli appalti Rai. Da mesi, ormai, i finiani si rifiutano di fornire spiegazioni. Semmai, accusano, insultano, se la prendono con la stampa («infame») o, come si dice a Roma, la «buttano in caciara» evocando complotti. Ma ormai anche un bambino comprende che le opacità e le mancanze di chiarezza stanno raggiungendo livelli insopportabili, a maggior ragione per chi, come il presidente della Camera, catoneggia sulla necessità di scrivere «codici etici».


Il tempo di dire la verità (tutta la verità) non è più rinviabile: e tanti, tantissimi cittadini non sono più disposti ad aspettare o ad essere presi in giro.
*portavoce del Pdl

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