Quercia turbata dai distinguo del Professore

Pietro Mancini

Romano Prodi è del tutto estraneo ai santuari economici e ai salotti del capitalismo, come il Professore ha, in modo pilatesco, proclamato nella sua recente esternazione su La Stampa prendendo le distanze da quella parte dei Ds più vicina al mondo degli affari? Chissà se l’ex ministro demitiano dell’Industria, nel governo Andreotti del periodo 1976-79, è riuscito stavolta a convincere il suo alleato nell’Unione, Tonino Di Pietro? L’allora pubblico ministero milanese lo bombardò di domande, nel luglio di 12 anni fa, in un rovente interrogatorio centrato proprio sui perversi intrecci tra i partiti e i boiardi delle partecipazioni statali, in particolare l’Iri, che Prodi (designato dal «salotto» irpino di De Mita) ha presieduto per 9 anni. Liberissimo Romano di rivendicare la sua «bolognesità» - dimenticando, peraltro, che il quartier generale dell’Unipol di Consorte è proprio nel capoluogo emiliano, in via Stalingrado - e di bocciare Roma, forse anche per rifilare una stoccata al sindaco Veltroni, che non fa mistero di aspirare a soffiargli la leadership. Ma, certo, un capo impacciato che prende la parola solo per defilarsi mentre monta la bufera nella sua coalizione sulla questione morale, e per smarcarsi dal primo partito della alleanza, sotto tiro per i rapporti e per le discusse telefonate dei suoi leader con Consorte e per il leasing, aperto da D’Alema presso la Bpl per pagare la sua costosa barca, non dimostra quel coraggio politico che (come sosteneva il Manzoni) chi non possiede non si può dare. È pertanto, comprensibile l’irritazione di D’Alema e Fassino nel sentire Prodi che bofonchia la sua presunta «diversità» rispetto a un «certo giro», ma lo fa solo oggi, mentre accettò nel 1996 la sponsorizzazione da parte del patron della Parmalat Calisto Tanzi della dispendiosa campagna elettorale dell’Ulivo.
Insomma, su uno dei nodi essenziali, quello della commistione tra politica e affari, l’Unione sbanda evidenziando nuove e profonde crepe proprio nel rapporto, tornato conflittuale, tra Quercia e Margherita. Che tra qualche mese si presenteranno insieme agli elettori, e che aspirano a formare il Partito democratico. E D’Alema, furioso contro quanti gli rinfacciano il conto aperto alla Bpl, la merchant bank a Palazzo Chigi, di cui parlò l’avvocato ed ex senatore del Pci Guido Rossi, e la definizione capitani coraggiosi, coniata per Colaninno di Telecom, non ha torto quando rispolvera, un po’ sottovoce, il garantismo (ma dovrebbe valere per tutti, non solo per i «compagnucci del quartierino») bocciando quei settori della magistratura che si muovono a comando. L’ex deputato di Gallipoli, tuttavia, sarebbe stato più credibile se all’epoca in cui tintinnavano gli schiavettoni di Di Pietro e di Caselli ai polsi dei democristiani e dei socialisti, avesse detto ai suoi compagni giustizialisti Occhetto e Violante che le indagini non sono le sentenze e che i giudici non vanno incoraggiati a usare le manette dalle urlanti tifoserie. Eravamo in anni lontani, appartenenti a un passato che non tornerà, ma non certo grazie alle omelie di Paolo Mieli e di Pier Ferdinando Casini, bensì solo se la politica si assumerà in pieno le sue responsabilità, senza delegarle alla magistratura.
E se i capi e i luogotenenti dei partiti ripudieranno il gioco al massacro, gli attacchi al Giornale e agli altri quotidiani - che doverosamente hanno pubblicato le telefonate più imbarazzanti - e il gusto di dimostrarsi più puri e più moralisti degli avversari e soprattutto degli alleati.

Non ha torto Casini quando invita i garantisti a dimostrarsi tali anche con i diessini, che sull’affaire Unipol, in attesa della direzione di mercoledì prossimo, hanno manifestato incertezze, ambiguità e oscillazioni sentendosi sotto il fuoco amico dei rutelliani.

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