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"Per divertirsi è necessario sovvertire logica e regole"

Gli scherzi al bar, la discoteca, l'esordio con Arbore: "Il mio è un umorismo surreale, sempre imprevedibile"

"Per divertirsi è necessario sovvertire logica e regole"

«Forse tutto è nato al bar. Il fatto è che non avevo un lavoro, non che lo cercassi, eh... Ma si stava al bar ad aspettare chissà che cosa e, oziando, scattava lo scherzo insieme agli amici, la goliardia. Quando ho capito che quel fare gli spiritosi poteva essere studiato, e usato per fare teatro, allora ho cercato di farlo in maniera seria». Nino Frassica, messinese affezionatissimo alla sua città (dove è nato, come Antonino, l'11 dicembre del 1950), è un protagonista dello spettacolo italiano (protagonista con signorilità, come i veri grandi): dagli esordi con Renzo Arbore nei leggendari Quelli della notte e Indietro tutta! all'amatissimo Don Matteo (dove è il Maresciallo Nino, «un buono»), passando per decine di film (al momento ne ha in ballo due: uno con Greg e Massimo Ghini e uno con Pieraccioni) e programmi. Come Che tempo che fa, dove presenta il suo «Novella Bella» e dove, spesso, a finire tra gli incredibili libri più venduti è il suo romanzo, Paola. Una storia vera (Mondadori), così vera che è totalmente surreale...

Nino Frassica, dopo il bar che cosa è successo?

«Gestivo una discoteca con degli amici a Galati Marina, il locale Golden Gate, e intrattenevo al microfono. Ero un animatore dilettante, però facevo ridere. Era estate, alla fine degli anni '60. Poi, da studente, organizzavo spettacoli, scrivevo, recitavo. Calcavo il palco, insomma. Poi c'è stato il periodo delle compagnie locali e dialettali, e delle radio private, con programmini, testi... Inventavo. E anche la moda del cabaret, che è più snello, perché non c'è solo prosa».

E Arbore?

«Non c'erano i social o altri modi per farsi notare: l'unica possibilità era fare uno spettacolo a Roma e mostrare di avere un senso dell'humor moderno e surreale, proprio come quello di Arbore. Ma come? Io mi sentivo già arboriano, quindi lo cercai».

Lo trovò.

«Avevo scoperto dove abitava, quindi risalii al numero di telefono e iniziai a lasciargli dei piccoli messaggi sulla segreteria, per farlo ridere. Alla fine mi chiamò per conoscerci. Lì è nata la nostra collaborazione, e sono passato da dilettante a professionista».

Com'era lavorare insieme?

«Era l'ambiente giusto per me: a Quelli della notte eravamo un gruppo di comici e non pensavamo agli ascolti o a fare qualcosa che tutti apprezzassero o capissero. Facevamo un umorismo d'élite, quasi, però il risultato era un successo, sia di critica, sia di pubblico. La grandezza di Arbore è proprio questa».

Che cosa le ha insegnato?

«Il distacco, un certo modo di stare davanti alla telecamera, il non pensare a un copione già scritto bensì a crearlo, a viverlo. È stata la mia prima scuola: essere autore e non solo attore, inventare».

Per riuscirci che cosa serve?

«O uno sa improvvisare, e ha un repertorio... Significa inventare in diretta, sul momento, qualcosa che fa ridere».

Che tipo di comicità è la sua?

«Non quella classica, basata sul doppio senso o la critica di costume, quella che parla della suocera, dei telefonini, o degli insuccessi con le donne... La comicità surreale va oltre: è imprevedibile».

Scardina la lingua?

«Sono un vandalo. Rovino le frasi fatte, i luoghi comuni, quello che tutti pensano, e vado per un'altra strada».

Come le viene?

«Col tempo, c'è del mestiere. Non ci sono imitazioni, è più l'atteggiamento: quello di uno che rovina».

Che cosa?

«La logica e il modo normale di dire le cose. Per esempio, a Novella Bella sono il direttore del giornale, e anche il vice, e mi sono nominato da solo. È per non stare al gioco, alle regole. Come quando cambio le rubriche: l'oroscopo, il quiz, la poesia, il gossip... sono tutti ruoli diversi, restando lo stesso. Una cosa alla Frassica: questo voglio fare».

Perché?

«Perché voglio far solo ridere, e divertirmi pure io».

Con chi si è trovato meglio?

«Con Arbore. E poi con Fazio, Chiambretti, Conti: mi impegno e lego bene con tutti. Da Fazio mi diverto, posso osare come con Arbore: non c'è il problema di questa battuta non la capiscono. Mi sento libero, mi butto».

Senza limiti?

«I limiti ci sono, certo. Quelli del buonsenso».

Chi le piace?

«Dei classici, quelli fondamentali per me sono stati Cochi e Renato, e i quattro di Alto gradimento: amavo quel genere e, in parte, lo faccio. Per la recitazione, Totò, Peppino e i comici napoletani, per il modo di porsi e essere attori. E, come spettatore, amo Verdone e la commedia all'italiana, Sordi e Abatantuono».

Lavora tanto?

«Sì. Mi diverto...»

Fra i programmi che ha fatto, qual è il suo preferito?

«Indietro tutta. Perché era un varietà dove, per un'ora, senza niente di scritto, gestivo la puntata con Arbore. Era il mio posto: i colori, i rumori, l'allegria... Come il tavolo di Fazio: un mondo particolare. Lui mi fa da spalla, che è una figura importantissima: mi viene appresso e scherza con me».

Che cosa vorrebbe fare?

«Una cosa a cui penso da anni è una sit com scritta e diretta da me, dove si improvvisa, con persone che sanno improvvisare, che non è recitare. Non per forza conosciute: persone che sappiano gestire la comicità».

Far ridere si impara o è una dote?

«È una dote naturale, ma c'è chi la trascura, e chi la coltiva. Mio fratello è più spiritoso di me a cena, ma finisce là. Invece, se una cosa fa ridere, io voglio capire perché, per riproporla: la studio, la teatralizzo, ne ricreo il contesto, la situazione, i tempi... Questo è anche il segreto della bravura di Verdone, per esempio».

Come funziona?

«Usiamo la stessa macchina fotografica: io fotografo tipi, cose, situazioni, parole o movimenti strani, e poi li riporto».

Fra le sue, la battuta preferita?

«Quando dico: Come ti chiami? Giovanni. Ah, mi dispiace. Non è una battuta: è uno spostare la logica, uno stravolgere il linguaggio. E, se ridono anche gli altri, vuol dire che qualcosa ho rovinato».

Non è solo uno strafalcione.

«No, è una strana logica: rovino, rovino... La storpiatura non l'ho inventata io: ci sono il teatro siciliano, Totò, Peppino, il cabaret. Io la uso perché la maschera del tipo scombinato confonde una cosa con l'altra».

È vero che il suo romanzo, Paola, diventerà un film?

«Sì, sì. Si gira l'8, non si sa quando. La protagonista non c'è però: lo vuole fare Matteo Garrone, e ha tolto completamente Paola».

Però si fa?

«Eh he, sì. L'ha fatto già».

Mi fa un oroscopo?

«Amore bene. Lavoro bene. Salute grazie.

Ciao».

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