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Riforme verso il traguardo Sparisce il Senato elettivo

Il patto Pd-Fi supera anche le ultime perplessità di Lega e Ncd e l'ostruzionismo di M5S e Sel. Renzi: "Momento straordinario, rido alle accuse di deriva autoritaria"

Riforme verso il traguardo Sparisce il Senato elettivo

C'è chi sostiene di vedere nel fagottino in arrivo tratti di Frankenstein, chi di udire già vagiti d'un Ircocervo di crociana memoria. Quel pochissimo che si può dire della riforma ieri finalmente uscita dall'incubatrice della commissione di Palazzo Madama è che vanterà mammina d'eccezione e d'eteree fattezze, Maria Elena Boschi. E purtuttavia che il padre resta (resterà) ignoto.
Lo scarrafone non convince neppure mammà, dall'incedere lieve come farfalla. «Noi viviamo un giorno alla volta, vedremo più avanti i punti da migliorare», dice la ministro facendo attenzione a intestarsi soltanto la parte «buona» del fattaccio: la missione compiuta. Ovvero, l'impegno «a chiudere in fretta», preso con il don Rodrigo della vicenda. Quel Matteo Renzi che resta sullo sfondo, senza aver voluto prender partito su nulla che non fosse, appunto, la necessità di «fare presto a eliminare il Senato». Si dice per dimostrare all'Europa che non racconta frottole, e che riesce ad averla vinta sui «frenatori». Così il premier si precipita in tivù a incassare il cambio di passo, dal valzer alla disco. «Il momento è straordinario per il Paese: prima s'andava al rallenty, ora il ritmo è giusto... Noi stiamo dicendo che alcuni tabù possono essere vinti se la politica ha coraggio». Le accuse «di deriva autoritaria» sono talmente «assurde» che «un sorriso mi si stampa sul volto».
Eppure andrebbe detto anche che la liquidità di un testo impalpabile ha invitato a nozze critiche d'ogni tipo, fino alla serata di chiusura nella quale proprio il co-relatore Calderoli, assieme a Ncd, facevano saltare il banco sulla non elezione dei futuri senatori. Calderoli ritirava la firma anche dagli emendamenti sulla ripartizione delle competenze tra Stato ed «Aree vaste». A insospettire Lega e Ndc era l'ambigua modalità di scelta dei senatori, in pratica nominati dai capigruppo regionali con accordi sottobanco. La questione, aggiunta al malcontento della fronda pidina, alla marea crescente dei malpancisti di Forza Italia, alle prime prove di ostruzionismo di Sel e M5S, bloccava il voto e rinviava a ieri mattina la ricerca di una «quadra». Seguivano così per tutta la mattinata ore tumultuose in commissione e fuori, con conciliaboli e vertici, riunioni di gruppo e minacce reciproche. L'alfaniano Augello tuonava: «Una formulazione scandalosa, ce vogliono frega'!». L'azzurro Minzolini vedeva confermate le proprie più fosche previsioni, facendosi promotore di una lettera «frondista» per chiedere alla Finocchiaro il rinvio dell'esame in aula (22 firmatari). Avrebbe finito per traballare persino il patto del Nazareno, se non fossero intervenuti sia il capogruppo Romani, sia Denis Verdini, per riportare ordine e calma nella riunione dei parlamentari di Forza Italia. Romani s'incaricava di spiegare direttamente ad Alfano per telefono che «non c'era nessun nocumento per Ncd», né erano veritiere alcune «maliziose interpretazioni». Nel frattempo, Calderoli e la Finocchiaro lavoravano a una nuova formulazione che passava infine a larga maggioranza.
L'inciampo però restava lì a dimostrare come la fretta non sia una buona consigliera e come queste riforme restino sospese nel vuoto. Le battaglie e manovre parlamentari si trasferiranno, dopo il voto sul Senato, sicuramente alla legge elettorale.

Che Renzi difende a spada tratta, a prova di qualsiasi sospetto: «Dimostreremo che la legge elettorale di cui si sta discutendo è quella che dà il minor numero di seggi al Pd», dice. Ancora una volta è una scommessa sul futuro, e sulla fiducia. «Ormai tutto è renzicentrico», dirà uno sconsolato Civati. O, per dirla come in una fortunata pubblicità: il Paese, un buco con tanto Renzi attorno.

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