Politica

Il salumiere del Trentino che intervista i Vip ma solo se amano Roma

Ha il diploma di terza media Durante il servizio militare fu folgorato dalla capitale. Il suo sito riceve ogni mese 60mila visite. È amico di Luigi Magni ed Enrico Vanzina. E conosce a memoria Trilussa e il Belli

C’è Paolo Bonolis che si cruccia: «Vorrei tanto sapere perché dobbiamo morire». C’è Nino Manfredi che ricorda la prima volta in cui andò a vedere a teatro l’attore Gustavo Cacini, campione del varietà scollacciato e zimbello di platee crudeli che si divertivano a bersagliarlo con uova marce, scorze d’anguria, broccoli: «Assistetti alla famosa battuta: “Beccate ’sta gattata!”, e gli tirarono un gatto morto sul palcoscenico». C’è Giulio Andreotti che racconta di quando lavorava al Popolo e andava a cena col poeta Trilussa al Falchetto: «Lui consumava un pasto intero. Noi giornalisti un piatto di spaghetti». C’è il regista Luciano Emmer, l’inventore di Carosello, scomparso nel 2009, che, ormai novantenne, commenta in dialetto veneziano la rivalità professionale con Aldo Fabrizi: «L’era un lazarón! Io feci Domenica d’agosto e lui per rabbia fece La famiglia passaguai, perché era invidioso di me». C’è Umberto Smaila che rammenta il più bel complimento ricevuto nel corso della sua carriera: «Me lo ha fatto un frate: “Guardi, come conduceva bene lei Colpo grosso, non l’ha condotto nessuno. Poi non è stata più la stessa cosa”. Mi ha fatto sentire la coscienza a posto». C’è Leonardo Pieraccioni che svela il suo sogno nel cassetto: «Abolire tutto il traffico di Roma e dirottarlo su Perugia. Però quelli di Perugia s’incazzerebbero molto». C’è Pippo Franco che non può imitarlo: «Non ho sogni e non ho manco il cassetto». C’è Gigi Sabani che si dichiara sconfitto: «Vivo alla giornata, prendo quello che viene. Scrivilo pure: la televisione è un mondo di merda. Fai un programma di successo, ti sono tutti vicino. Il programma non funziona più, hai tutti contro». C’è Pietro Calabrese, il direttore del Messaggero, della Gazzetta dello Sport e di Panorama, che 80 giorni prima di morire, ben conscio del tumore al polmone diagnosticatogli un anno prima, detta il suo motto-testamento: «I problemi seri sono altri». E regala un sorriso postumo ai lettori rievocando la più fantozziana gaffe della sua vita: «Guardando una foto sulla scrivania dell’allora governatore di Bankitalia, Antonio Fazio, gli ho fatto i complimenti per i suoi bei nipoti e lui mi ha detto: “Questi sono i miei figli”».
Ci sono tante piccole chicche disseminate nelle 411 interviste che Gianfranco Gramola ha realizzato dal 1991 a oggi. Un concorrente agguerrito dei Tipi italiani, e non solo per il fatto che la sua serie è cominciata otto anni prima. Tuttavia, mentre al vostro cronista interessano prevalentemente i Gramola, lui si occupa esclusivamente di personaggi famosi: attori, registi, cantanti, politici, scrittori, mezzibusti, comici, presentatori, campioni dello sport. Purché nati o residenti o vissuti a Roma. O comunque legati alla Città Eterna da un amore viscerale, quantomeno pari al suo. Che, per uno venuto al mondo in Trentino e oggi abitante a Molveno, sull’omonimo lago nel Parco dell’Adamello Brenta, ha dell’inspiegabile.
Ma c’è dell’altro a rendere davvero unico il soggetto. Gramola, 53 anni, sposato, un figlio e una figlia che studiano per diventare ragionieri, non è un giornalista. Insegue i Vip per puro diletto e s’accontenta di pubblicare i dialoghi sul proprio sito, Intervisteromane.net, che ha aperto nel 2005. Un critico severo potrebbe obiettare che le sue domande sono quasi tutte uguali, un po’ come nel questionario di Proust. Ma bisogna tener conto che l’autore ha solo il diploma di terza media. Cominciò come garzone di salumeria, consegnando pane e latte a domicilio. Oggi è responsabile del settore alimentari al supermercato Conad di Andalo, località turistica della Paganella sulle cui piste si allena la nazionale di sci alpino degli Stati Uniti, «scriva pure banconiere», insomma durante la stagione invernale affetta speck e pancetta sette giorni su sette, «abbiamo mezza giornata di riposo solo la domenica pomeriggio».
La circostanza rende ancor più meritorio il suo eccentrico hobby: è difficile in orario di lavoro vedere miei colleghi che si procurano per vie traverse indirizzi e numeri di telefono di big irraggiungibili, inviano questionari per posta o per e-mail, insistono, assediano, rompono e, quando tutto questo ancora non basta, approfittano di un giorno di riposo o di una breve vacanza per saltare su un treno, raggiungere Roma, dare la caccia al candidato, attenderlo al varco per strada, suonargli il campanello di casa senza preavviso, strappargli l’intervista e infine riuscire addirittura a diventare suo amico. È esattamente il modus operandi di Gramola nel tempo libero: intercetta Pippo Baudo in un bar di via della Vite, manda in confusione Ezio Greggio fino a fargli bere il caffè col sale al posto dello zucchero, tampina Carlo Delle Piane, Giorgio Bracardi e Alessandra Canale - tre prede fiocinate in meno di due ore - fra il caffè Rosati di piazza del Popolo e via della Croce. Noi giornalisti dovremmo ringraziare Dio d’averne fatto nascere uno solo, di Gramola. Altrimenti a quest’ora saremmo tutti a imbottire panini col salame al posto suo.
Perché non ha scelto il mio mestiere?
«Non ho potuto studiare. Mio padre era un muratore. Morì prematuramente. Mia madre restò vedova a 48 anni con cinque figli. Io fui mandato a frequentare le medie dai comboniani a Trento, nella speranza che diventassi missionario: una bocca in meno da sfamare in famiglia».
E perché questa fissazione per Roma?
«Me ne innamorai quando fui mandato al Car di Bracciano per il servizio di leva come artigliere. Era la prima volta che uscivo dal Trentino. Di Roma mi piacque tutto: il clima mite, la luce particolare che la illumina, il contrasto fra l’azzurro del cielo e il colore dei suoi palazzi, la gioia di vivere degli abitanti. Tanto che cominciai a imparare a memoria Trilussa, Giuseppe Gioachino Belli, Cesare Pascarella e a tradurre le poesie trentine per il Rugantino, quindicinale in dialetto romanesco».
Se fosse stato arruolato nel 6º Reggimento alpini a Brunico, chi intervistava?
«Dopo sei mesi chiesi l’avvicinamento a Bolzano. Eppure non ho mai pensato a raccogliere interviste sudtirolesi. Ancor oggi, anziché L’Adige o Il Trentino, leggo Il Messaggero».
Si sente romano.
«Ma non nel senso che mi ha spiegato Roberto Gervaso, secondo il quale essere romano significa godersi quanto più possibile la vita, facendo fare agli altri quello che dovremmo fare noi, passare almeno un’ora ogni mattina al bar a parlare di calcio e di donne, vendere un po’ di fumo, vantarsi d’imprese mai compiute, raccontare barzellette, prendersela col governo e perdere tempo, lodando quello passato».
Il suo primo intervistato?
«Il padre di Carlo Verdone, Mario, critico cinematografico. Per anni ci siamo scambiati gli auguri a Natale».
Nessuno che si neghi?
«L’unico fu Vittorio Gassman. Il numero telefonico della moglie, Diletta D’Andrea, lo trovai sulla rubrica. “Non me la sento, sto male”, mi rispose l’attore. Sapevo che era depresso e non insistetti per rispetto. Andai anche a cercare Federico Fellini nel suo ufficio di via Margutta, ma stava correndo a Cinecittà: “Ora non ho tempo, ma ti prometto che faremo qualcosa”. Mi lasciò una foto con dedica. Poi purtroppo morì».
Sarebbe esercizio abusivo della professione, lo sa?
«Ho chiesto al presidente dell’Ordine dei giornalisti del Trentino se potevo creare un sito senza scopo di lucro con le mie interviste e lui mi ha detto che non ci sono problemi».
Ha tanti visitatori?
«All’inizio solo 500. Adesso sono arrivato a 60.000 al mese».
I Vip sono così vanitosi da perdere mezza giornata con uno che non è nemmeno giornalista?
«Altroché. La voglia d’essere conosciuti ancora di più non ha limiti».
E lei dà del tu a tutti.
«Me l’ha insegnato Alberto Sordi. Gli telefonai il 26 luglio 1998, una domenica. “Sto andando a Fregene a magna’ er cocomero. Chiamame stasera alle 8”. Alle 20 in punto rispose di nuovo. “Ma perché mi dai del lei?”, chiese. Non sono capace di darle del tu, lei è troppo grande, è un mito, balbettai. “Fa’ come te pare, Gianfrà”. Poi si lanciò in un proclama d’amore per la sua città: “Io sono romano non soltanto anagraficamente, sono romano nell’epidermide, perciò qualunque cosa dovesse accadere a Roma, io dalla mia città non mi muovo”».
È stato di parola: è sepolto al Verano.
«Faceva il paio con Paolo Panelli: “Con Roma faccio l’amore”. Un altro che adora la sua città è Luigi Magni, il regista che meglio di tutti ha narrato la Roma papalina con Nell’anno del Signore e In nome del Papa Re. Magni si riconosce in ciò che diceva Bertel Thorvaldsen, lo scultore danese dell’Ottocento: “Io sono nato il giorno che sono giunto a Roma. Prima non esistevo”. Thorvaldsen festeggiava addirittura il compleanno nell’anniversario del suo arrivo nella capitale».
Però Magni s’è fatto intervistare a Venezia.
«Sì, nella sua bella casa affacciata sul Canal Grande, perché la moglie Lucia Mirisola, costumista, è veneziana. All’ora di pranzo mi ha trattenuto: “Ma ’ndo vai, ahò? Vieni a magna’ con noi”. Mi ha portato al ristorante dell’hotel Monaco, di fronte alla basilica della Salute. Alla fine ha voluto pagare lui. Io stavo per mettere mano al portafoglio. “Ma che te sei impazzito?”, mi ha stoppato. No, no, ho fatto soltanto il gesto, gli ho risposto. Marito e moglie sono scoppiati a ridere. Lui non sapeva che gli abitanti della Val di Non sono peggio dei genovesi. Allora gli ho raccontato la barzelletta dei tre nonesi che litigavano perché ognuno di loro voleva offrire agli altri due il caffè appena bevuto. Il barista ebbe un’idea: “Andate fuori e ficcate la testa nella fontana. Il primo che la risolleva per respirare, paga il conto”. Morirono tutti e tre affogati. Quando adesso mi capita di andar a trovare Magni a casa sua in via del Babuino, scende e mi paga il caffè al bar».
Ma lei riesce a costruire con tutti i suoi intervistati un rapporto d’amicizia?
«Con molti. Quello che mi ha accolto con più simpatia è stato lo sceneggiatore Enrico Vanzina, fratello maggiore del regista Carlo. Un uomo buono e umile. Mi spedisce sempre i suoi libri». (Mi porge una copia di Una famiglia italiana, Mondadori, con questa dedica: «Alla famiglia Gramola, amici veri, persone perbene, come quelle raccontate in questo libro. Con affetto. Enrico Vanzina. Gennaio 2011»). «Mi ha fatto promettere che andrò a trovarlo con mia moglie e i miei figli. Non siamo mai stati a Roma tutti insieme. Gli ho chiesto: secondo te, qual è il fascino di Roma? Mi ha risposto con un aneddoto. Una volta un amico di Stendhal venne a Roma e gli chiese: “A cosa serve il Colosseo?”. Stendhal gli rispose: “A far battere il cuore”. Ecco, Roma fa battere il cuore».
La casa più bella che ha visitato?
«Quella di Nino Manfredi, all’Aventino. Ci abitava da 25 anni, non s’era più voluto muovere dal colle su cui andava a passeggiare spesso con suo padre. Ma anche quella di Gigi Proietti sulla via Cassia. Proietti m’ha dato le indicazioni esatte per arrivarci col bus. L’ho trovato in giardino, con le ciabatte ai piedi, insieme a due cagnacci enormi. E poi la casa-museo di Luciano De Crescenzo, in via Tor de’ Conti, vicino al Colosseo. All’ingresso, sulla porta, c’è una targa dorata con sopra inciso “Prof. Bellavista”. Più bella ancora era però la sua segretaria».
Ma lei che fa? Piomba nelle abitazioni di questi poveretti quando meno se l’aspettano?
«Spesso. Due anni fa sono andato sotto casa di Antonello Venditti, in piazza dei Mercanti, dove c’è il ristorante Meo Patacca. L’indirizzo l’aveva pubblicato Il Messaggero per una vicenda di abusivismo edilizio. Era mezzogiorno, Venditti stava ancora dormendo. Ho suonato. S’è affacciato alla finestra. Ha mandato di sotto la donna di servizio con un biglietto omaggio per un suo concerto all’Eur. Lì a Trastevere lo conoscono tutti. Una volta gli hanno rubato le quattro ruote dell’auto. Quando è uscito sul giornale che si trattava della macchina di Venditti, il ladro gliele ha restituite con un biglietto di scuse».
Il più antipatico che ha intervistato?
«Nicola Arigliano. Fra una domanda e l’altra recitava lo scioglilingua “Trentatré trentini entrarono a Trento tutti trentatré trotterellando”, forse per coglionarmi. Però mi ha svelato il segreto della sua longevità».
Il digestivo Antonetto.
«No, l’aglio. Mi ha rivelato che ne mangiava a chili. Infatti è morto a quasi 87 anni».
Spesso rintraccia personaggi dimenticati, come Ursula Andress e Gloria Paul.
«La Andress era un po’ infastidita perché l’ho disturbata mentre in giardino curava i suoi fiori. Vive a Zagarolo e le interviste le dà solo di mattina».
Be’, non credo che ci sia la fila per intervistarla di pomeriggio o di sera.
«S’è giustificata così: “La gente al giorno d’oggi ama dire solo cose cattive. I giornalisti quando scrivono cose cattive sono contenti. C’è troppa voglia di arrivare e la gente è sempre più stressata. Per questo io non amo parlare con i giornalisti, caro Gianfranco. Ho fatto un’eccezione per lei. Però penso che sia tutto tempo perso”».
E Gloria Paul che le ha detto?
«Era una delle bluebell del Lido di Parigi, ballava nelle riviste e nei film con Erminio Macario, Totò, Renato Rascel. Ora è paralizzata dalla vita in giù, costretta in sedia a rotelle, per la frattura di una vertebra: nel 1996 le cadde addosso il boiler del bagno. L’incidente le ha fatto scoprire chi sono le persone che le vogliono veramente bene. “Sono stata fortunata: quelle che avevo scelto fin dall’inizio non mi hanno deluso”, mi ha detto, ricordando l’antico proverbio: “È nella cattiva sorte che si vedono i veri amici”».
Mercoledì prossimo molti menagramo scapperanno da Roma perché dicono che il sismologo dilettante Raffaele Bendandi, morto nel 1979 a Faenza, avrebbe previsto per l’11 maggio 2011 un disastroso terremoto nella capitale. Se lei abitasse lì, che farebbe?
«Rimarrei, come avrebbe fatto Alberto Sordi. Non è la Città Eterna?».
(542. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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