Salute

Combattere l’Alzheimer precoce in persone con sindrome di Down, una nuova sfida

Dal mondo degli scienziati arrivano buone notizie su come sia possibile giocare in anticipo contro questa patologia. La chiave di tutto è l'insulina

Combattere l’Alzheimer precoce in persone con sindrome di Down: una nuova sfida

L’Alzheimer irrompe nella quotidianità di chi è in età avanzata causando disagi di grave entità. Dalla perdita della memoria alle altre abilità intellettive, con il rischio di compromettere in maniera determinante il normale stile di vita. Nelle persone affette da sindrome di Down invece, questa patologia accelera i tempi presentandosi in giovane età (35-40 anni circa). Ma la scienza fortunatamente fa passi in avanti e dalla Capitale italiana arrivano importanti novità. Il professore di biochimica, Eugenio Barone, dell’Università Sapienza di Roma, con il suo gruppo di ricerca e in collaborazione con i colleghi del Policlinico Gemelli e dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, sta portando avanti uno studio con risultati che fanno ben sperare. In questa intervista, il professore Barone ci spiega tutti i dettagli.

Come nasce questo studio? Da dove siete partiti?

“Lo studio parte dalla malattia di Alzheimer. Una patologia devastante e molto complessa, che con il tempo stiamo imparando a conoscere sempre meglio grazie al lavoro incessante di molti ricercatori in tutto il mondo, tra cui includo anche il nostro gruppo di ricerca. Tra gli aspetti, forse meno noti, ma non meno importanti, emerge quello del ruolo dell’insulina a livello del sistema nervoso centrale. Tutti conoscono l’insulina per via dei suoi effetti legati alle malattie metaboliche come il diabete e l’obesità. Pochi probabilmente sanno che l’insulina gioca un ruolo fondamentale anche nel nostro cervello”.

In che modo?

“A livello cerebrale, l’insulina stimola tutti quei processi molecolari alla base di funzioni quali la memoria e l’apprendimento, che invece si perdono con lo sviluppo dell’Alzheimer. Quando il segnale dell’insulina non funziona bene, si crea un corto circuito nelle cellule che iniziano così a sperimentare uno stato di sofferenza. È quello che succede nel diabete (a livello del fegato, dei muscoli, del tessuto adiposo), ed è quello che si verifica nella malattia di Alzheimer (nel cervello). Ma c’è di più. Sappiamo bene che anche le persone che soffrono di diabete, sperimentano questo corto circuito a livello cerebrale, manifestando un decadimento delle loro funzioni cognitive. Per questo, il diabete e le malattie metaboliche sono riportati quali grandi fattori di rischio per lo sviluppo dell’Alzheimer. Un aspetto fondamentale: queste alterazioni a livello cerebrale si verificano molto prima rispetto alle classiche alterazioni caratteristiche della malattia di Alzheimer, quali l’accumulo della proteina beta amiloide e degli aggregati neurofibrillari di proteina Tau”.

Cosa c’entra la sindrome di Down?

“Le persone con sindrome di Down purtroppo soffrono di una importante disabilità intellettiva e di un invecchiamento accelerato per via della triplicazione del cromosoma 21. Inoltre, presentano tutte le alterazioni che ho elencato prima perché hanno una elevata frequenza di diabete (sia di tipo 1 che di tipo 2), obesità e, purtroppo, a livello cerebrale, sviluppano la patologia tipica dell’Alzheimer già a partire dai 35-40 anni di età. Per questo motivo, abbiamo ipotizzato che le alterazioni del segnale dell’insulina nel cervello potevano essere presenti anche in queste persone e che queste alterazioni potessero contribuire in maniera significativa alla disabilità intellettiva tipica della sindrome di Down e magari accelerare lo sviluppo dell’Alzheimer”.

Che significato ha identificare delle alterazioni precoci come quelle del segnale dell’insulina nel cervello?

“Il significato è molto semplice ma allo stesso tempo fondamentale: battere l’Alzheimer sul tempo. È la grande sfida dei prossimi anni. Prima riconosciamo ed identifichiamo le alterazioni a livello cerebrale, maggiore è la possibilità di intervenire. Studiare in questo caso la sindrome di Down, è come spalancare una finestra che ci permette di vedere in anticipo, di circa 20 anni, quello che in una persona normalmente avviene dopo i 55-60 anni di età. Di conseguenza è una grande opportunità per la ricerca ma allo stesso tempo è fondamentale per aiutare le persone con sindrome di Down. Il problema è che, ad oggi, non abbiamo ancora una tecnologia che ci permette di identificare facilmente questo tipo di alterazioni. Per altri marcatori come la beta amiloide esistono la risonanza magnetica o la PET, per esempio. Identificare le alterazioni del segnale dell’insulina nel cervello è un po’ più complesso”.

Su cosa si basa il vostro studio?

“Il nostro studio, si basa su un approccio che permette, attraverso un prelievo di sangue, di identificare le alterazioni del segnale dell’insulina nel cervello. Seppur non semplicissimo, questo approccio potrebbe rivoluzionare l’identificazione di questi nuovi marcatori precoci, come sta già avvenendo per l’Alzheimer, e quindi dare l’opportunità di intervenire in anticipo per rallentare la progressione della patologia. Quello che abbiamo dimostrato grazie alla nostra ricerca, è che le alterazioni del segnale dell’insulina a livello cerebrale nella sindrome di Down sono presenti già nei bambini e quindi molto tempo prima dello sviluppo dell’Alzheimer. È dunque importantissimo tenerle sotto controllo”.

Uno studio che può aiutare non solo le persone affette da sindrome di down ma anche chi, in età avanzata, viene colpito da Alzheimer. Ci spieghi il motivo.

“Credo sia proprio così. Pensate che quando i primi sintomi, quali perdita della memoria o l’incapacità a svolgere le normali attività quotidiane, iniziano a manifestarsi, è già molto tardi. La malattia di Alzheimer ha iniziato ad intaccare il nostro cervello 10-15 anni prima. Per questo motivo è fondamentale identificare i campanelli di allarme che, ovviamente, non possono essere solo i sintomi. C’è bisogno di giocare di anticipo, anche con screening precoci. In questo quadro, l’identificazione delle alterazioni del segnale dell’insulina rappresenta un promettente marcatore”.

Basta solo questo?

“Naturalmente no. Siamo consapevoli della complessità della patologia. Ma ogni tassello è importante, soprattutto quando si ha a che fare con una malattia per la quale non esiste ancora una cura. Identificare e magari correggere queste alterazioni, attraverso una terapia, potrebbe essere di notevole aiuto per combattere questa devastante patologia. Numerosi studi in letteratura ormai considerano le alterazioni del segnale dell’insulina a livello cerebrale dei veri e propri marcatori patologici della malattia di Alzheimer, e altri studi hanno dimostrato che migliorando il segnale dell’insulina a livello cerebrale è possibile rallentare di molto lo sviluppo e la progressione dell’Alzheimer”.

State studiando anche la possibilità di dar vita a dei farmaci che possano aiutare i segnali dell’insulina a funzionare in maniera regolare.

“Il nostro gruppo sta monitorando anche l’effetto di alcuni farmaci. Questo tipo di ricerca è fondamentale perché siamo di fronte non solo a un problema di tipo medico ma anche a un problema socio-economico. Il vero perno del welfare è la famiglia, sulla quale ricade la responsabilità e il peso dell’assistenza della persona con disabilità, soprattutto in età adulta. Da scienziato però sento l’obbligo morale di non dare false speranze. Non abbiamo a che fare con una patologia semplice. Quello che posso dire, è che negli ultimi anni la ricerca sulla sindrome di Down ha subito una forte accelerazione, perché si è intuito che studiare la sindrome di Down, proprio per le tante comorbidità a cui si accompagna, può avere risvolti importanti per altre patologie, inclusa la malattia di Alzheimer. Ci sono alcuni farmaci in studio a livello interazionale, incluso il nostro, che va ad agire proprio sul segnale dell’insulina, e la speranza è quella di poter fornire quanto prima alle famiglie una o più molecole che possano promuovere benefici significativi”.

Che tempi ci sono prima di arrivare al farmaco?

“I tempi restano sempre un’incognita. È molto difficile rispondere a questa domanda. Ci sono studi già avviati sia in Europa che negli Stati Uniti. Spero che anche per il nostro farmaco il trial clinico sull’uomo possa essere avviato in tempi brevi. Vorrei, piuttosto dare un consiglio relativamente a qualcosa che si può fare nell’attesa di un farmaco. Qualcosa alla portata di tutti. Abbiamo un farmaco efficace, specialmente contro le alterazioni del segnale dell’insulina, che spesso (forse volutamente, perché molto difficile da usare) dimentichiamo. Si chiama “alimentazione sana e movimento”. Due armi che se usate insieme, sono efficacissime nel combattere le alterazioni del segnale dell’insulina e permettono di giocare di anticipo. Seguire un’alimentazione corretta in cui andiamo a ridurre tutti quegli alimenti che aumentano la glicemia e di conseguenza l’insulina, nonché fare attività fisica quotidianamente, sin da bambini, fa bene al nostro cervello, perché si attivano meccanismi alla base della protezione e rigenerazione cellulare, che di conseguenza ci permettono di vivere in salute, più a lungo, e di prevenire lo sviluppo dell’Alzheimer. Questo vale anche per la sindrome di Down”.

Questa medicina può aiutare anche gli anziani che soffrono di demenza senile?

“Mi sento di dire di sì perché gli studi scientifici effettuati finora dimostrano come i meccanismi molecolari alla base delle alterazioni del segnale dell’insulina sono simili tra le diverse patologie. Di conseguenza, un farmaco efficace nella sindrome di Down, potrebbe promuovere gli stessi effetti neuroprotettivi anche nella demenza senile. Fermo restando che prima agiamo meglio è”.

Qual è la posizione dell’Italia rispetto alle altre Nazioni in merito alla ricerca scientifica nella sindrome di Down?

“In Italia operano numerosi gruppi di ricerca riconosciuti a livello mondiale per il loro contributo alla sindrome di Down e con una storia particolarmente importante nel nostro Paese. L’impegno profuso finora da parte dei gruppi di ricerca italiani, è stato premiato durante l’ultima Conferenza Internazionale sulla Sindrome di Down svoltasi nel giugno scorso in California, con la scelta dell’Italia e, della città di Roma in particolare, quale sede della prossima Conferenza internazionale che si terrà nel 2024. Quale promotore di questa proposta insieme ad altri illustri colleghi, con il sostegno fondamentale dell’Università Sapienza di Roma, nella figura della Magnifica Rettrice Prof.ssa Antonella Polimeni e del sindaco della città Roma Roberto Gualtieri, posso dire che abbiamo già iniziato a lavorare alacremente perché vogliamo organizzare un congresso scientifico che lasci il segno. Rinforzare la sinergia tra ricerca scientifica e famiglie è uno degli obiettivi della comunità scientifica che si occupa della sindrome di Down a livello internazionale ed uno dei pilastri della conferenza che andremo ad organizzare. La ricerca non deve mai perdere di vista la persona.

Combattere l’Alzheimer, nelle persone con sindrome di Down e nella popolazione generale è un dovere morale di tutti noi”.

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