Salute

Down e autistici Come «curarli» mettendogli in testa il cappello da chef

Serena Sartini

Li chiamano ragazzi speciali. Sono ragazzi con la sindrome di Down, autistici o con un ritardo mentale, che trovano nei fornelli la loro terapia, il loro modo per diventare autonomi divertendosi, stando insieme, socializzando e imparando anche a far da sé. È diventata una sorta di nuova frontiera, la «cucina-terapia», o «cooking therapy» per dirla con il termine britannico. Una terapia che aiuta questi ragazzi a superare i propri limiti. E chissà, magari a trovare uno sbocco lavorativo.

L'idea è della Federazione italiana cuochi che ha messo in campo un primo progetto pilota, vicino Ostia. A guidare la brigata è Biagio Rapone, chef della Federcuochi, responsabile del Dipartimento solidarietà ed emergenza della Basilicata, titolare di un ristorante alla periferia sud di Roma. «Da due anni abbiamo avviato questo progetto per un gruppo di una ventina di ragazzi, tra i 14 e i 18 anni, grazie a una collaborazione con l'Associazione Cocid che sostiene il progetto autonomia. Insegniamo a questi giovani ad essere indipendenti, perché prima o poi dovranno cavarsela da soli, a fare la spesa nel loro quartiere e poi a cucinare. L'associazione ha affittato un appartamento dove i ragazzi vivono durante il weekend e sono costretti a far da sé.

MANUALITÀ E PAZIENZA

Nel frattempo, Alice, Vera, Yuri, Manuele spadellano e corrono da una parte all'altra della cucina per realizzare le frappe. Indossano con fierezza la divisa con impresso sul petto il loro nome. E l'immancabile cappello da chef. «Per loro è una passione prosegue Rapone sono molto attivi in cucina, è uno strumento terapeutico, perché c'è bisogno di concentrazione, manualità, pazienza». A seguirli una volta a settimana c'è lo chef Ugo Zannola. «Io preparo la ricetta che copre un arco di tempo di due ore e li accompagno mano a mano spiega iniziamo col fare la spesa insieme e poi ci mettiamo a cucinare. In cucina? Sono uguali agli altri, la diversità non è un peso ma una risorsa. I ragazzi sono meravigliosi, ricevo molto di più di quello che riesco a dare io a loro».

Insomma, la cucina come strumento terapeutico, come metodo per migliorare la vita dei ragazzi con disabilità. Angela Losco è presidente dell'Associazione Cocid (coordinamento cittadino integrazione del disabile) nata nel 2002 con l'obiettivo di favorire l'integrazione e l'inserimento dei ragazzi nelle scuole e nelle varie attività. «Il progetto cucina ha avuto un grande successo dice la presidente i ragazzi frequentano le lezioni con gli chef con molto piacere, sono contenti, acquisiscono sempre maggiore capacità e autonomia. La cucina ha un valore anche terapeutico, perché imparano a gestire gli spazi, ad organizzare responsabilmente il lavoro proprio e degli altri, imparano a rispettare il proprio turno, ad utilizzare strumenti elettrici, acquisiscono manualità, e perfino le strategie per riuscire a trovare una soluzione, laddove inizialmente non riescono». E racconta della mamma di un ragazzo down che pensa al futuro con più speranza e ottimismo.

Quello di Ostia è il progetto pilota che potrebbe aprire la strada della cucina-terapia in altre zone d'Italia. Un modo anche per creare occasioni professionali per i ragazzi. «Alcuni frequentano la scuola alberghiera dice lo chef Zannola - speriamo che si aprano per loro delle possibilità lavorative in questo settore. Tutto ciò che facciamo è proprio con l'obiettivo di prepararli a un inserimento sociale e professionale». «Il progetto in cucina aiuta molto nella manualità, per il movimento delle mani, ma anche mentalmente. Mio figlio racconta la mamma di Yuri - è molto contento quando cucina, è sicuramente un'ottima terapia, per tutti loro».

STIMOLI CREATIVI

«Questi progetti sono importanti per la Federcuochi perché i ragazzi speciali hanno bisogno di stimoli dice Rocco Pozzulo, presidente della Federazione italiana cuochi - e aiutarli attraverso la cucina significa dar loro una prospettiva futura. La cucina è creativa e può sviluppare e valorizzare le loro capacità. Siamo felici di fare progetti del genere. Sarebbe bello che lo Stato facesse delle leggi speciali per consentire ai ristoratori di offrire un'occupazione a questi ragazzi, con un piccolo stipendio, per assicurare a queste persone un futuro, per farle sentire importanti nel tessuto sociale». «La cucina è una terapia preziosa per i ragazzi speciali gli fa eco lo chef televisivo Alessandro Circiello -. Nelle scuole alberghiere, in Italia, ce ne sono diversi e devono potersi integrare perfettamente. Trovano uno svago, possono essere utili e soprattutto possono realizzare degli ottimi piatti come tutti gli altri allievi. Hanno anzi una marcia in più, hanno molta grinta, entusiasmo e voglia di fare».

In provincia di Cosenza, invece, lo chef Carmelo Fabbricatore tiene dei corsi per non vedenti. «La cucina è una terapia preziosa anche per loro racconta con i nostri corsi abbiamo avuto un ottimo riscontro. Siamo partiti dal far apparecchiare la tavola a un non vedente, fino ad arrivare alla preparazione di pietanze. È un modo per stimolare le loro capacità e per far acquisire loro competenze importanti».

Dunque possiamo dire che la cucina è una terapia a tutti gli effetti? Secondo professor Antonio Cerasa, neuroscienziato del Cnr che ha studiato a lungo il rapporto fra cucina e riabilitazione la risposta è sì: «Si tratta di una terapia riabilitativa che mira al recupero dell'autonomia, della abilità sociale, ma anche al recupero della funzione motoria e di quella cognitiva. E il nostro protocollo, con i risultati ottenuti dalla ricerca, ci spingono ad ipotizzare che la cooking activity possa essere traslata in un modello riabilitativo neuromotorio».

Non solo: «Cucinare serve per ritrovare funzioni motorie e ottimizzare la programmazione cognitiva, molto spiccata negli chef: studi pilota mostrano che le lezioni di cucina possono essere utili anche in pazienti che hanno patologie neurologiche come demenza o Parkinson, in cui si perde la capacità di decidere che cosa fare adesso rispetto a dopo.

Direi che, certamente, sì, è una terapia a tutti gli effetti».

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