Cultura e Spettacoli

Lo "scienziato" Velly che diede vita alla morte

L'artista francese scomparso tragicamente nel 1990 sul lago di Bracciano sapeva guardare la Natura con gli occhi attenti del botanico. Ma vi cercava Dio

Lo "scienziato" Velly che diede vita alla morte

Arrivò una notizia terribile. Jean-Pierre Velly non era morto di malattia, una delle tante ingiurie alla vita che passano sotto il nome di infarti, ictus, tumori, leucemie. No. E non era neppure sparito, disperso, come alcuni perduti nell'aura del mito - Empedocle, Majorana, Caffè - per sottrarsi alla confusione e alla dissoluzione della vita degli uomini, entrano in una dimensione mitica. Velly era scomparso negli abissi, inghiottito nella melma e nel fango, cadendo dalla barca su cui si muoveva, inquieto e tranquillo come sempre, sul lago di Bracciano con il piccolo figlio. Vane le ricerche per ritrovare il suo corpo.Certo la sua morte - il 26 maggio 1990, era nato nel '43 - è rimasta come un incubo negli occhi di un bambino. E non che già non ci fosse l'ombra della morte in tutta la sua opera; ma Velly era arrivato così vicino all'essenza delle cose da rabbrividire e tremare, davanti a una natura conosciuta in una dimensione creaturale, gnostica ed esoterica: il punto di vista di Dio.Velly non guarda la Natura, vi è dentro. Come la radice della pianta. Come un insetto che di lei si nutre. Velly è la foglia che cresce. È il fiore che si apre. Velly è la notte e l'origine della luce. Il gelsomino notturno. All'opposto di Piero Guccione e dei suoi distesi crepuscoli, Velly dipinge paesaggi annuvolati con squarci improvvisi di luce lontana. Non intende essere un romantico. È lontanissimo da John Constable, che pure osservò tutte le nuvole, anche in cieli tersi; è lontanissimo da Caspar David Friedrich, che vede la natura come un luogo dell'anima, nella tensione fra la forza degli elementi e la fragilità dell'essere umano. A quei maestri, come a quelli del Rinascimento, importa l'assoluto, il dio che è in noi. Velly osserva con il distacco dello scienziato, del naturalista, del botanico, versati in una dimensione spirituale, panteistica. Non intende essere un simbolista, ma è attratto dai contrasti, dalla tensione delle forze della natura. Gli interessa dipingere il vento che libera il cielo dalle nuvole. Gli interessano le zolle, la terra accogliente e fertile come quella arida e riarsa. Non dipinge idilli, ma tempeste. La Natura, la vecchia quercia in autunno, il grande albero, i cieli minacciosi, gli uccelli feriti, gli insetti minacciosi, i cardi nel paesaggio, sono riflessi di uno stato d'animo, prolegomeni ai tormentati e ripetitivi autoritratti. Essi non rispecchiano il volto, ma ciò che gli anni hanno lasciato sulla faccia, nel tempo devastante, irreparabile. Un'assonanza è con il volto di Alberto Giacometti, non come ci è tramandato da disegni e dipinti, ma piuttosto dalle fotografie, dove appare scavato dai solchi delle rughe.Gli autoritratti di Velly sono un diario di pene, un reticolo, una ragnatela. Nulla di più lontano dai volti nei ritratti dell'apparentemente simile Giacometti. Sintetico l'uno, analitico l'altro. Velly non cerca l'anima: ne ha in abbondanza. Cerca il degrado della carne, la decomposizione, la polvere, la cenere, il nulla. Più che a quella di Francis Bacon e di Lucian Freud, la sua sensibilità è affine a quella di Joel Peter Witkin, al suo profumo di morte. I suoi fiori si macerano nei vasi dei cimiteri. Le aurore sono apocalissi. Le notti livide sono sfondi di calvari, strisciati da luci sinistre. Eppure anche la morte vive, fermenta, miscela odori di corpi, profumi di gigli e crisantemi. Un ininterrotto memento mori: questa è l'opera, da cui anche i vicini erano lontani, a una distanza incolmabile tra la sua coscienza e la nostra, di Jean-Pierre Velly.

E il resto è inutile dire.

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