Politica

Se Acca Larenzia fu una strage brigatista

Il mitra dell’eccidio usato per tre delitti eccellenti Savasta, ex capo delle Br: dietro l’uccisione dei missini il gruppo di Marina Petrella, la “protetta” di Carla Bruni

Se Acca Larenzia  fu una strage brigatista

Il filo rosso, spezzato, della strage di Acca Larenzia. Trentatre anni dopo si allunga sulle Br l’ombra della mai chiarita mattanza del 7 gennaio 1978 dirimpetto la sezione del Msi al quartiere romano del Tuscolano: due ragazzi ammazzati, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, altri due feriti, più un terzo militante, Stefano Recchioni, ucciso negli scontri di piazza tra giovani di destra e forze dell’ordine. Ad oggi gli assassini di Acca Larenzia non hanno un volto. All’epoca si indagò, poco e male, sui Nact (Nuclei armati per il contropotere territoriale) che in quella zona a sud della Capitale operavano come «cerniera» fra l’Autonomia operaia e l’organizzazione militare della stella a cinque punte. Si scavò con sufficienza sulle precise rivelazioni di più pentiti rossi (Todini, Brogi e altri) che però non ressero al vaglio dibattimentale. E soprattutto si seguì fino a un certo punto la pista dell’arma utilizzata per l’eccidio.

Trentanni dopo quel filo rosso ha iniziato ad avvolgerlo l’allora numero tre delle Br, Antonio Savasta, che prima di pentirsi e disarticolare la sua organizzazione, giustiziava Taliercio e Varisco, interrogava il generale americano Dozier, custodiva la Renault 4 «carro funebre» di Aldo Moro. Nel bel libro di Nicola Rao («colpo al cuore», edito da Sperling & Kupfer) Savasta decide di confessare quanto sin qui mai rivelato su Acca Larenzia e sull’omicidio, da parte del suo gruppo, di un altro giovane missino, Mario Zicchieri. E nel farlo offre un formidabile riscontro a quanto scoperto da Valerio Cutunilli e Luca Valentinotti in un altro libro shock dal titolo «Acca Larenzia, quello che non è stato mai detto». Savasta si dilunga sul dibattito interno alle Br, «tra la fine del ’77 e l’inizio del ’78» sull’opportunità o meno di «attaccare i fascisti del Tuscolano». Chi spingeva per colpire i neri apparteneva alla «Brigata Torre Spaccata» capeggiata da Francesco Piccioni, Remo Pancelli, Marcello Capuano, Giulio Cacciotti», da «Stefano e Marina Petrella», quest’ultima riparata in Francia eppoi difesa da Carla Bruni, signora Sarkozy, contraria alla sua estradizione. Savasta non ha certezze dirette ma, dice sicuro, «ho sempre avuto la convinzione, dopo quello che avevo sentito, che dietro quell’azione vi fossero i compagni della Brigata di Torre Spaccata, che sicuramente fornirono copertura, armi e mezzi».

Qualcuno di loro, aggiunge, «molto probabilmente partecipò personalmente all’attacco». Da cosa nasce questa sua convinzione? «Quelli di Torre Spaccata chiesero alle altre brigate territoriali come pensavano di comportarsi con i fascisti del loro quartiere, fui testimone di accese discussioni (...). In pratica chiedevano all’organizzazione una specie di placet per colpirli. Erano assolutamente determinati nel voler sparare ai fascisti in quelle zone, e colpirli significava annientarli (...)». Alla Brigata di Torre Spaccata, per competenza territoriale, si rifacevano sigle e sottosigle di Roma Sud, tipo gli «Mrpo», «Ncr», «Lapp» e soprattutto i «Nact» rappresentati nel logo da una mitraglietta. Simile alla Skorpion utilizzata dalla futura pentita Livia Todini per fare pratica nel parco della Caffarella, arma consegnatale dall’«addestratore» brigatista Stefano De Maggi, casualmente residente nel palazzo accanto alla sezione missina di Acca Larenzia.

Questa skorpion con ogni probabilità è la «seconda» in dotazione alle br (l’altra servì per uccidere Moro) di cui parlerà il terrorista rosso Gennaro Maccari in commissione stragi. E quasi certamente è quella sequestrata nel 1988 nel covo di via Dogali che firmerà tre omicidi politici e pure la strage del 7 gennaio ’78. L’arma, si scoprirà dopo la strage di via Fani, era stata acquistata nel 1971 dal cantante Enrico Sbriccioli, al secolo Jimmi Fontana, a suo dire rivenduta a pochi giorni da Acca Larenzia a un poliziotto del commissario Tuscolano (che ha sempre negato l’acquisto) conosciuto nella stessa armeria al quartiere Prati frequentata da un certo «signor Marchetti», al secolo Valerio Morucci, capo brigatista, ribattezzato «Pecos» per la sua sfrenata passione per le armi.

Nessuno ha mai tirato il filo (rosso). Perchè?

Commenti