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Se essere musulmani dà diritto all’impunità

Cosa sarebbe successo se Fatima, la ragazza chiusa in una stanza, legata e picchiata dai genitori e dal fratello che non accettavano il suo «stile di vita», non fosse stata di origine magrebina? Cosa sarebbe successo se a Bologna, città in cui la libertà femminile ha un'antica tradizione, una famiglia italiana, magari cattolica, avesse trattato allo stesso modo la propria figlia? Possiamo immaginare il coro compatto di accuse, di commenti contro l'antifemminismo della Chiesa e contro la famiglia come luogo soffocante di violenza e di oppressione. Possiamo anche ipotizzare che il comportamento dei giudici sarebbe stato diverso, e che sarebbe stato assai difficile far passare botte e angherie come normali strumenti pedagogici. Non credo che la Corte di Cassazione avrebbe scritto, nelle motivazioni con cui conferma la sentenza di assoluzione dei familiari, che le percosse non esprimevano «il necessario requisito della volontà di sopraffazione e del disprezzo» e che erano giustificate «da comportamenti della figlia ritenuti scorretti». Non credo che un timido desiderio di libertà, qualche uscita e un amico non approvato a casa, sarebbero bastati a legittimare il sequestro e i brutali maltrattamenti.
Ma Fatima non è italiana e non è cattolica. La sua disgrazia è di essere nata in una famiglia di fede islamica: l'appartenenza la schiaccia come una colpa originaria, la marchia come una schedatura poliziesca, e la obbliga, secondo i giudici, a mantenere un comportamento «conforme alla cultura» della famiglia, indipendentemente dalla propria volontà. Con questa sentenza la giustizia italiana si avvia a valutare diversamente i cittadini in base alla loro cultura di provenienza, e ad agganciare il diritto alla comunità di cui si fa parte. Accade già in altri Paesi, per esempio in Canada. Gradualmente il relativismo culturale comincia a insinuarsi tra le pieghe dell'amministrazione della giustizia, fino a modulare diritti e libertà individuali sull'appartenenza etnica o religiosa.
Qualche giorno fa un'altra sentenza della Cassazione aveva fatto esultare le associazioni gay, stabilendo che «è giusto proteggere un immigrato clandestino che, a causa delle sue inclinazioni sessuali, potrebbe essere perseguitato nel proprio Paese». Nel testo si leggeva anche che «la libertà sessuale va intesa come libertà di vivere le proprie preferenze sessuali senza condizionamenti e restrizioni». Ma evidentemente per i magistrati non va tutelata la modesta, banale libertà di scegliersi un ragazzo. Le preferenze di Fatima non contano nulla, la sua libertà non ha alcun valore. Nel suo caso i condizionamenti e le restrizioni si possono tranquillamente applicare, anche con la violenza, anche con la segregazione. Anzi, i familiari di Fatima, chiudendola a casa e picchiandola selvaggiamente l'hanno protetta - sempre secondo i giudici - dalle proprie pulsioni autolesioniste. Infatti la ragazza, disperata, aveva manifestato propositi suicidi. Peccato che la causa scatenante di questi propositi fosse la paura delle reazioni familiari, e che la sentenza rischi di legittimare un circolo vizioso: se riesco a brutalizzare qualcuno fino a fargli minacciare il suicidio, poi posso immobilizzarlo e sequestrarlo per proteggerlo da se stesso.
Meno male che tante donne hanno reagito, da destra e da sinistra.

Meno male, perché si preparano tempi difficili.
Eugenia Roccella

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