La sfida estrema di tre bresciani tra i ghiacci dell’Alaska a «- 40»

Tre bresciani in Alaska per una sfida estrema. Una corsa lunga 1.770 chilometri per un mese di durata, con temperature fino a meno 40 gradi, circondati soltanto dai ghiacci, dai lupi, dalle alci e dagli indiani Athabaska. Su dieci italiani che parteciperanno alla Iditarod 2010, al via il 28 febbraio prossimo attraverso il più giovane dei 50 stati degli Usa, tre vengono dalla provincia lombarda. E nessuno di loro è un atleta professionista. Mario Sterli, 42 anni di Edolo, fa il geologo; Paolo Gregorini, 35enne di Vezza d'Oglio, è piastrellista; Roberto Gazzoli, 35 anni di Flero, faceva il magazziniere. La passione tutta bresciana per quella che gli organizzatori definiscono «la corsa a piedi più lunga e dura al mondo» non è un caso, ma una tradizione trasmessa di podista in podista. «Per me è cominciato tutto nel 2006 quando ho conosciuto un gruppetto di atleti della mia zona che partecipavano all'Iditarod - racconta Gazzoli -. Sono subito rimasto folgorato e ho deciso di andarci anch'io». Uno di loro, Roberto Ghidoni, oggi è una leggenda: ha preso parte a sei edizioni tra il 2000 e il 2005 dell’impossibile raid e ne ha vinte cinque, riuscendo a conquistare il record assoluto nel 2002. Ma sono bresciani anche veterani dell'Iditarod come Marco Berni, Savino Musicco, Willy Mulonia, Riccardo Ghirardi e i fratelli Aldo e Gigi Mazzocchi. «Quando parti, l'importante è che tu sia sicuro di arrivare alla fine, perché in mezzo non c'è nulla, e nessuno che può soccorrerti - sottolinea Gregorini -. Ogni giorno si cammina per almeno 13-15 ore e spesso non si dorme più di due o tre ore a notte. È la testa a farti andare avanti quando il fisico non regge più». «Ogni volta che la temperatura scende sotto i meno 40 gradi, il pericolo è estremo e bisogna cercare riparo il più in fretta possibile - osserva Gazzoli -. Anche perché il freddo può mandare in tilt il rilevatore Gps e se le bufere di neve coprono il sentiero è finita». Mentre per Sterli «il problema maggiore sono le infiammazioni e le tendiniti: la capacità di reazione delle proprie gambe su quelle distanze non è assolutamente prevedibile». E a ogni tornante sono in agguato il pericolo o il momento magico. «Nel 2008 abbiamo passato una notte all'aperto sul Rainy pass, un tratto impervio che si snoda in una gola - rievoca Gregorini -. C'erano 30 gradi sotto zero, alle 5 del mattino siamo saltati fuori dai sacchi a pelo e ci siamo incamminati. Poco dopo ci siamo imbattuti in un villaggio indiano tutto di legno, circondato dalla natura: uno spettacolo indimenticabile». Ad affascinare Sterli è invece soprattutto il fatto che «lungo l'intero percorso si incrociano in tutto tre o quattro accampamenti: per il resto si è completamente soli. Ma quei rari incontri si apprezzano molto di più delle centinaia di persone con cui si ha a che fare standosene in Italia». «Durante la corsa avverto una sensazione di grandissima libertà, perché qualsiasi cosa accada devo essere in grado di farvi fronte in modo autonomo - sottolinea Gazzoli -. Anche se la vera soddisfazione la provo al traguardo: mi dà una forza che poi mi porto dietro nella vita quotidiana». Tanto che alla fine il «mal d'Alaska» costringe a fare di tutto per tornarci. Gazzoli è arrivato a lasciare il lavoro pur di allenarsi a tempo pieno. «La preparazione atletica dura quattro o cinque mesi ed è difficile da conciliare con la vita professionale - ammette il podista -. Così ho deciso di dare le dimissioni da magazziniere.

Oggi ho fatto di questa passione il mio nuovo lavoro: organizzo viaggi in mountain bike, dal Sahara alla Patagonia, sempre all'insegna dell'avventura».

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