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Si costruisce la Terra Santa in casa "Ma che calvario con i magistrati"

Roberto Albertelli, pensionato della Telecom, lavora 10 anni con cemento e resine per rifare in scala la Palestina dei tempi di Gesù. Due terzi dell’abitazione sono ora un museo privato. Con le pietre vere su cui poggiò la croce

Si costruisce la Terra Santa in casa 
"Ma che calvario con i magistrati"

La casa è bella larga: 337 metri quadrati. Roberto Albertelli ne ha tenuti meno di un terzo, 97 metri quadrati, per sé e per la moglie Dolores Coleschi. I due terzi li ha riservati al Figlio di Dio. Via Bagnolo 18, in collina, meno di 400 metri in linea d’aria dalla Rocca di Castrocaro Terme. Un primo cartello turistico marron segnala «Sentiero del Santo», ma rischia di portare fuori strada: ricorda semplicemente che di qui nel maggio 1221 passò Sant’Antonio da Padova diretto verso l’eremo di Montepaolo. Un secondo cartello indica «Croce gloriosa»: è quello giusto, ma ancora non rende l’idea. Impossibilitato a tornare nella Palestina, dov’è stato una mezza dozzina di volte in pellegrinaggio di fede e di studio, questo pensionato di 66 anni originario di Cesenatico, già tecnico della Telecom, ha deciso di ricostruirsi in casa propria la Terra Santa dei tempi di Gesù. In scala ridotta, si capisce. Ha lavorato quasi per un decennio con cemento, resine, vernici acriliche, cristalli, pannelli esplicativi, investendo non meno di 30.000 euro e avendo sempre a modello le planimetrie disegnate dai frati archeologi dello Studium Biblicum Franciscanum che da oltre un secolo scavano nel sottosuolo del Medio Oriente.
A prima vista gli edifici sembrano fatti di cartoncino. Li tocchi: marmo. In una stanza ecco la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme, quello di cui fu detto: «Non resterà pietra su pietra che non venga distrutta». In un’altra ecco la grotta di Betlemme. In un’altra ancora ecco il Golgota. In un’altra la casa di Maria dove avvenne l’Annunciazione. In un’altra il perimetro della dimora di Pietro a Cafarnao. In un’altra il plastico completo della Terra Santa dalle alture del Golan fino al Mar Rosso. Qui una boccetta riempita con l’acqua del fiume Giordano in cui Giovanni battezzò Gesù. Là un’ampolla di liquido salato raccolto nel Mar Morto.
E poi tre piccole croci piantate su tre pezzi di roccia, con tanto di scala metrica scolpita nel marmo. Non tre sassi qualsiasi: «Li ho scalpellati via di nascosto, in barba a cattolici, musulmani, ortodossi e armeni, dalla roccia del Calvario custodita nella chiesa del Santo Sepolcro che l’imperatore Costantino fece costruire nell’anno 325. Due diversi viaggi mi ci sono voluti. Andavo alle 5 di mattina, appena aperta la chiesa. Non è stato facile lavorare con una sola mano infilata in una stretta fessura del cristallo protettivo». Nota il mio stupore. «Non dovevo? Da quando li ha toccati Cristo, sono sassi universali, di tutti. E comunque meglio sorvegliati da me che in mano ai maomettani».
Ma queste imprese ancora non gli bastavano. Come pure non gli bastavano la cappella con altare, tabernacolo e inginocchiatoi che fino al 1986 ha ospitato la messa domenicale per le famiglie del circondario, le cinque statue della Madonna (del Presepio, di Lourdes, di Fatima, di Medjugorje, del Rosario) e quelle di Gesù, di padre Pio, di San Michele arcangelo e di altri cinque angeli. Albertelli ha voluto impreziosire la sua privatissima Terra Santa con qualcosa che andasse ben oltre l’intimità domestica, qualcosa che fosse visibile stando giù in paese e che magari costringesse a volgere lo sguardo verso il cielo tanto i villeggianti che di giorno frequentano le Terme quanto le voci nuove che nelle sere d’estate si esibiscono sul palco del Festival di Castrocaro. Ed ecco allora la «Croce gloriosa» - 7 metri e 38 centimetri di lamiera e plexiglas, illuminata dall’interno - che si erge al termine delle 15 stazioni di una via crucis eretta nel verde del pendio.
Nonostante le autorizzazioni comunali, mal gliene incolse. Perché, a parte gli altri 50.000 euro di spesa, stavolta a finire dritto sul calvario è stato lui. Con l’aggravante di non avere, ossuto e mingherlino com’è, le spalle di Simone, l’uomo di Cirene. Accusato di abuso edilizio, abuso della credulità popolare, disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, in una parola di rappresentare con la sua stravagante iniziativa nientemeno che «un pericolo per la salute e l’incolumità fisica» dei vicini, Albertelli è finito sotto processo ed è stato crocifisso dalla magistratura, al pari della consorte, per il reato continuato di cui all’articolo 81 del codice penale. Con la magra consolazione di ritrovarsi ai lati del patibolo, in veste di buoni cristiani anziché di buoni ladroni, gli amici Ortensio Sassi e Maria Grazia Zaccaria, marito e moglie, tanto spericolati da averlo affiancato nella pratica devozionale.
«Dopo aver ispezionato i luoghi del delitto, mi sono trovato di fronte a una splendida sorpresa», mi aveva raccontato lo scrittore Roberto Corsi, che ha dedicato alla vicenda un capitolo del suo libro Anoressia della memoria. «Non mi pare scoperta da poco individuare uno che costruisce tutto ciò di tasca propria, senza ricerca di sponsor, senza chiedere l’obolo al ministero dei Beni culturali. Anche nel cosiddetto mondo cattolico mi sono imbattuto spesso in personaggi che, ritenendo di aver fatto qualcosa di buono, non si accontentano della promessa del regno di Dio, ma parano la mano come faceva Mattley, il cane di Dick Dastardly nel cartone animato Lo squadrone avvoltoi di Hanna & Barbera, che ansimava: “La medaglia, la medaglia”».
Adesso però il mite pensionato e i suoi fratelli di fede hanno avuto la resurrezione in atti giudiziari: assolti con formula piena dal tribunale di Forlì perché il fatto, cioè la preghiera collettiva, non costituisce reato. Al Nazareno bastarono tre giorni. Ad Albertelli quattro anni di carte bollate, 25.000 euro buttati in avvocati e un mezzo esaurimento nervoso.
È sicuro che questo sia il posto più adatto per una via crucis?
«Sicurissimo. Ho progettato questa casa nel 1970, con le mie mani, su un terreno che storicamente è sempre stato chiamato l’Orto di Sant’Antonio, proprio perché di qui passò il taumaturgo. Avrei voluto costruirne un’altra per ospitarci dopo quasi 800 anni i francescani, ma il Comune mi ha bocciato il progetto. Lei pensi che solo per poter mettere il cartello “Croce gloriosa” sono dovuto ricorrere prima al difensore civico, che mi ha dato ragione, e poi minacciare di rivolgermi al Tar. C’è voluto un anno prima che il sindaco dell’epoca, Maurizio Fussi, diessino, si decidesse a rilasciarmi la licenza per la via crucis. E comunque l’idea è stata dei nostri amici Ortensio e Maria Grazia, non mia. Una riproduzione della croce di Dozulé».
Dozulé?
«È una località francese della Normandia, dove tra il 1970 e il 1978 Gesù apparve per 49 volte a Madeleine Aumont, moglie di un operaio, madre di cinque figli. Cristo Re le chiese che fosse eretta la più grande croce esistente al mondo, 738 metri, cioè l’altitudine del Golgota sul livello del mare, illuminata di bianco e di azzurro. Siccome il desiderio del Redentore non s’è potuto realizzare, i fedeli di tutto il mondo stanno costruendo croci gloriose in scala, alte 7,38 metri. Ne sono sorte a migliaia, ovunque: da Losanna a Quito, da Valencia a Fatima, persino a Nouméa, in Nuova Caledonia. Una quarantina soltanto in Romania. Un’infinità in Italia: a Novara, Forlì, Cesena, Manduria, Ravenna, sette in Sardegna, una delle quali sul Gennargentu. E la vuol sapere una cosa straordinaria?».
Dica.
«Solo al termine dei lavori mi sono accorto che la mia via crucis era venuta esattamente della stessa lunghezza, 520 metri, di quella originale di Gerusalemme. Altra incredibile coincidenza: è risultata identica, 10 metri, anche la differenza altimetrica fra il Calvario e il Litostroto, il lastricato su cui Gesù fu processato da Pilato e flagellato dalla guarnigione del pretorio. Lei sa bene che il Golgota, il “luogo del cranio” raffigurato nell’iconografia tradizionale e dai registi come una montagna, in realtà era una collinetta di pochi metri, tanto da essere oggi inglobata all’interno della chiesa del Santo Sepolcro. Quando l’ho fatto notare a un sacerdote veneto che passava le acque a Castrocaro ed era voluto salire fin quassù, s’è messo a ridere».
Ma non era un oratorio privato? Aperto al pubblico?
«Certo, se qualcuno bussa, non posso cacciarlo. Ci troviamo sulla via crucis in una ventina d’amici tutti i venerdì dalle 21 alle 22.15, con qualsiasi tempo, anche con la neve. A mezzanotte la croce illuminata si spegne».
Se era tutto in regola, com’è che siete finiti sotto processo?
«Tre famiglie hanno presentato un esposto alla Procura, ai carabinieri e alla diocesi, sostenendo che la collina aveva subìto “profondi e innaturali mutamenti destinati a incidere pesantemente sulla vita quotidiana dei residenti” e accusandoci d’averla trasformata in zona di culto senza aver chiesto il permesso al questore. Ma questa è una proprietà privata e i permessi vanno chiesti solo quando le funzioni religiose si svolgono sul suolo pubblico».
Non è che pregate e cantate a squarciagola?
«Sempre a voce bassa. E poi, guardi, una delle persone che ci ha denunciato abita a Bologna. Le pare che avrebbe potuto sentirci stando a 80 chilometri da qui? La cosa buffa è che la prima a difenderci è stata la famiglia Abdoulaye Khoudia, senegalesi di religione musulmana che custodivano la villa di due dei nostri accusatori. Hanno testimoniato per iscritto che la pratica della via crucis non ha mai procurato alcuna molestia alle loro occupazioni e al loro riposo. In quelle case sono subentrati nigeriani, marocchini, tunisini e ogni volta che ci sentivano pregare erano gli islamici a smettere di parlare o di ridere per il timore di disturbare la nostra funzione religiosa».
Quanti processi ha subìto?
«Prima il Comune mi ha portato davanti al giudice di pace per farmi spostare la croce. Poi ho avuto due procedimenti penali. Nel primo le accuse di abuso edilizio e abuso della credulità popolare sono state archiviate. Nel secondo mi hanno condannato a 1.000 euro di ammenda per il disturbo della quiete pubblica e il mancato avviso al questore. Potevo estinguere la pena ricorrendo all’indulto. Ho rifiutato, mi sono fatto processare dal tribunale di Forlì e ho vinto».
Ha perdonato i suoi accusatori?
«Ho perdonato. Ma, vede, quando vado a confessarmi, prima di darmi l’assoluzione il prete mi ordina di riparare i danni arrecati al prossimo. Quindi chiederò un risarcimento».
Si fida ancora della magistratura?
«Assolutamente no. Lo dico da ex arbitro. Ho diretto partite di calcio per sette anni, fino alla Promozione, e un “cornuto” in campo poteva starci. Però questo è stato un accanimento persecutorio antireligioso mai visto al mondo. In un rapporto i carabinieri sono arrivati a scrivere che a casa mia ospitavo degli “incantatori”, testuale, solo perché venne a trovarmi Gianni Varini, un veggente di Carpi, oggi defunto, che, pur protagonista di eventi prodigiosi, ha sempre rifiutato il ruolo di guaritore. “Perché mi toccate?”, allontanava da sé i superstiziosi. “Non sapete che state toccando carne d’asino?”. Se questo è un incantatore...».
Vittorio Messori sostiene da tempo che i cattolici, ridotti ormai a minoranza, almeno sul piano culturale, dovrebbero seguire l’esempio di un’altra minoranza, quella ebraica, e difendersi con ogni mezzo.
«Ha ragione. Ed è quello che ho fatto. Parlo sempre da ex arbitro: passi un fallo di rigore, ma quattro diventano troppi. Del resto i primi a gettare la spugna sono i preti. “Ma perché ha voluto costruire una via crucis così grande?”, mi hanno rimproverato alcuni parroci».
Non ha avuto solidarietà dalla Chiesa?
«Zero. Anzi, appena i miei vicini hanno presentato l’esposto, l’ordinario diocesano mi ha revocato il permesso che consentiva ai sacerdoti di celebrare messa in casa mia. Sono andato a parlare col vescovo di Forlì, Lino Pizzi, e anche col suo predecessore, Vincenzo Zarri. Il loro ragionamento è molto semplice: la cosa che hai fatto è in sé buona, io però non la incoraggio, allo stesso tempo non posso oppormi. Forse mi manca l’astuzia del gesuita. Conosce la storiella? Durante gli esercizi spirituali il gesuita legge il breviario e fuma una sigaretta. “Beato te che puoi fumare! A me non lo hanno concesso”, sospira il domenicano. “Ma tu che cosa avevi chiesto?”, gli domanda il gesuita. “Di fumare mentre pregavo”, risponde il domenicano. “Sbagliato. Io ho chiesto ai miei superiori se potevo pregare mentre fumavo. Ma certamente!, mi hanno detto”».
Se poi i vescovi avessero saputo che è andato a fregare le pietre del Calvario nella chiesa del Santo Sepolcro...
«Ah, mica solo quelle». (Scompare e torna dopo qualche istante con due teche di cristallo). «Anche questo pezzo di pietra staccato dalla grotta dell’Annunciazione della basilica di Nazaret. Vede com’è liscio? È stato lustrato dalle mani di milioni di pellegrini. E poi queste quattro rocce scalpellate via dalla grotta di Betlemme che si trova dentro la basilica della Natività. Ma il cuore è il Calvario, è il Sepolcro. Lì si sono spalancate le porte della salvezza. Se Lui non fosse risorto, sarebbe stato un uomo qualsiasi. Come dice San Paolo, se i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la nostra fede».
E che cosa le dà la certezza che Gesù di Nazaret non fosse uno dei tanti rabbi che circolavano da quelle parti duemila anni fa?
«Proprio i miracoli, a cominciare dalla resurrezione. E i miracoli continuano anche oggi, come Lui aveva promesso: “Chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi”. Basti pensare alle guarigioni scientificamente inspiegabili di Lourdes».
Ma di resurrezioni se ne sono viste poche.
«Dovrebbe visitare la Cappella Brancacci nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze e soffermarsi sull’affresco che raffigura Pietro nell’atto di resuscitare Tabità, la generosa sarta di Giaffa».
Non ha voglia di tornare nella Terra Santa vera?
«Molta. Ma come faccio? Quelli là sparano».
Pensa che israeliani e palestinesi faranno la pace, un giorno?
«No. Secondo me, mai. Ha presente il caso del giudice Clementina Forleo? Incompatibilità ambientale. Non sono proprio in grado di stare insieme».
(420. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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