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Si ribella alla legge di Gomorra «I miei aguzzini? Tutti liberi»

CAMORRA Per i suoi quattro negozi pagava ai clan 6.000 euro ogni settimana

Si ribella alla legge di Gomorra «I miei aguzzini? Tutti liberi»

Stefano Zurlo

La sfortuna è ben visibile sulla carta geografica. L’insegna del negozio Leolamp era proprio sul confine fra Scampia e Melito. Un incrocio caotico di periferie sformate. A chi toccava riscuotere il pizzo? «Un giorno - racconta Luigi Leonardi -sono entrati in cinque. “La zona è nostra”, mi hanno bofonchiato senza tanti giri di parole. “Tu ci devi pagare”. Venivano da Secondigliano, come dire da Scampia, e sono rimasti lì, fra le luci e i lampadari per almeno un’ora. Poi, finalmente se ne sono andati, dopo aver fissato la tariffa: 2.500 euro la settimana. Con consegna, “mi raccomando, puntualità”, al sabato mattina».
Luigi Leonardi sperava fosse finita lì. Pia illusione. «Dieci giorni dopo sono venuti in due, due che poi hanno fatto una brutta fine: uno è morto in una sparatoria, l’altro è su una sedia a rotelle. Sono stati fin troppo chiari: “e noi chi siamo? Siamo peggio di quelli là? Come ti sei regolato con loro, ora ti devi regolare pure con noi. Facciamo 1.500 euro la settimana. Al sabato mattina».
Allora, alla fine del 2005, Luigi Leonardi era un giovane imprenditore di poco più di trent’anni. Aveva quattro negozi, a Chiaia, nel cuore di Napoli, e poi in tre località difficili dell’hinterland: Melito, Giugliano, Cardito. In più una fabbrica che riforniva direttamente i punti vendita. «Avevo ricavi altissimi, ero soddisfatto, innamorato del mio lavoro, e tenevo alto il nome della mia famiglia che da sempre opera in questo settore». Ma Leonardi non aveva fatto i conti con i clan, più famelici dei cani randagi che pure battono la zona. «Nel giro di pochi giorni c’è stata una processione di soldati dei clan nel mio ufficio. Quelli di Cardito, poi quelli di Ottaviano, infine il boss di Giugliano mi ha mandato a chiamare: “noi non ti abbiamo mai scocciato, tu adesso dai qualcosa pure a noi e sei a posto”».
Per mettersi a posto, Leonardi versava circa 6.000 euro la settimana ai vari clan. «Lo so che può sembrare incredibile, ma io passavo il sabato mattina a preparare le buste. A volte questi signori si trovavano in cortile, bevevano un caffè insieme e poi passavano a riscuotere. Con la massima tranquillità. Li riconoscevo subito perché di solito venivano in due, in motorino, rigorosamente senza casco. Incassavano, salutavano come saluta il postino, se ne andavano».
Leonardi ha resistito quasi un anno, stringendo i denti, ma è stato inutile. «Mi dissanguavano, mi strozzavano un po’ alla volta, io non ce la facevo più, ma loro volevano i soldi. Sempre soldi. Altri soldi. Ho capito che il business era finito. Ho chiuso la fabbrica, ho chiuso Chiaia, ho chiuso Cardito, ho chiuso Melito, ho chiuso Giugliano, ho messo sul lastrico diciassette persone. Ho concentrato quel che restava ad Aversa. Ma non è servito. Non è servito a nulla».
Leonardi guarda smarrito il suo interlocutore. Ha paura di non essere creduto, teme che le sue parole possano apparire lunari se trasferite alle latitudini del Nord, a Milano o a Torino. Ma questa storia è un grido disperato che parte dalle viscere del profondo Sud. Un grido che racconta tanti, troppi fallimenti tutti insieme. Quello della scommessa imprenditoriale, che pure aveva tutti gli elementi per riuscire, e quello di una giustizia che non c’è e balbetta, mentre i clan battono il pugno sul tavolo.
«A giugno 2007 sono venuti in tre, su due motorini. Sono stati di poche parole: “vieni con noi”. Mi hanno portato al Terzo mondo, un quartiere degradato a Secondigliano e mi hanno chiuso in uno scantinato per una giornata intera. Mio padre, purtroppo, a suo tempo aveva fatto dei pasticci, si era indebitato ricorrendo alle cambiali e quelle cambiali sono finite nelle mani dei clan. “Tu o tuo padre”, mi ripetevano “ci dovete pagare. Ventiseimila euro”. “Io non vi devo niente”, “no, tu ci devi dare quei soldi. Ma che pensassi, di stare a Beverly Hills?. Se no, posa questo negozio e vattene”. Mi hanno puntato una pistola in fronte, mi hanno minacciato di morte. Non sapevo come fare. Per ore. Alla fine mi hanno liquidato così: “Cominciamo dalla macchina e dalla moto che tieni”. Le hanno valutate 13mila euro. “Gli altri - è stato il loro congedo - ce li darai”».
Qualche settimana dopo, Leonardi ha varcato la porta del commissariato e ha firmato la denuncia. La prima di una lunga serie. Ad accompagnarlo un avvocato messo a disposizione dalla blasonata associazione antiracket di Tano Grasso, Mediterraneo. Sì, proprio i campioni duri e puri della lotta alla camorra. Leonardi è tornato dalla polizia tante volte e ha riempito centinaia di pagine: «Mi mostravano album fotografici con le facce degli affiliati ai clan e li ho riconosciuti tutti. Ho dato nome e cognome senza esitazioni a trenta delinquenti che mi hanno minacciato e sequestrato e che mi hanno spremuto seicentoquarantamila euro». Una scelta coraggiosa, quella di Leonardi, da medaglia in una terra infestata dal cancro della criminalità organizzata. Invece, due anni dopo, Leonardi è solo. Come e più di prima.
«A gennaio 2008 l’inchiesta era finita, i nomi dei miei aguzzini sul tavolo del Pm, le denunce firmate. Ma poi non è successo nulla. Nulla di nulla. Nemmeno un arresto. Il Pm non mi ha mai chiamato, mai interrogato, mai ascoltato per saggiare almeno la mia lucidità. L’avvocato dice un giorno sì e l’altro pure che l’indagine langue, che la mia credibilità dev’essere verificata, per via di mio padre o di non so che altro. Ma io, io che devo fare? Ho perso tutto. La famiglia, gli affetti, il lavoro, la leggerezza della mia età: non ho più nulla. Se non la paura che mi sparino».

Che fine ha fatto l’inchiesta? Quali approfondimenti sono necessari? Forse l’apparato investigativo non crede all’imprenditore con il volto pulito? «Ma se non mi credono adesso perché mi hanno creduto nel 2002? Allora denunciai un altro clan, quello che mi succhiava il sangue quando il mio quartier generale era a Nola. In quell’occasione ho riconosciuto quattro estorsori, li ho fatti arrestare, li ho fatti condannare a nove anni. Uno mi ha mandato la moglie a parlamentare: “sa, mio marito mi ha detto di chiederle di togliere la denuncia, che poi quando esce vi aggiustate”. No, non l’ho tolta e sono andato all’aula bunker a Napoli, con il cuore in gola, e ho confermato. Ho confermato tutto. Ho confermato parola per parola. Col cancelliere che mi guardava come un marziano e mi ripeteva: “ma che fate qua? Ve ne dovete andare, è pericoloso”. Risultato, ora sono solo. Abbandonato. Scaricato. Braccato dai criminali che possono farmi la pelle».
Non è retorica. È la cruda realtà di questa terra senza speranza. Assoggettata alla legge dei clan. «Venti giorni fa sono arrivati di nuovo, e sono andati giù piatti: “sappiamo che hai parlato con chi non dovevi parlare”. Mi si è gelato il sangue, l’indagine era segreta, ma loro hanno saputo. Mi sono precipitato dalla polizia: gli investigatori mi hanno incredibilmente detto di stare tranquillo, quelli secondo loro non sanno, avrebbero fatto un’affermazione generica, ma io mica bevo le favolette. Basta. Ora denuncio tutto con il mio nome, il mio cognome stampato sul Giornale. Così non posso andare avanti. Anche perché loro sono tornati. Ancora. Per l’ennesima volta.

Hanno detto che gli dovevo altri duemilacinquecento euro, hanno fatto un giro, hanno scelto tre lampadari e mi hanno fissato il prossimo appuntamento: “Passeremo a ritirare la merce a fine mese”».

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