Controcultura

Simone Cristicchi: "Metto in scena i dolori rimossi della storia d'Italia"

Il «cantattore» racconta a teatro David Lazzaretti, definito da Arrigo Petacco «il Cristo dell'Amiata»

Simone Cristicchi: "Metto in scena i dolori rimossi della storia d'Italia"

In fondo Simone Cristicchi è un eretico. Si è fatto conoscere con un tormentone involontario (Vorrei cantare come Biagio), poi ha vinto il Festival di Sanremo con un brano composto dopo una visita in manicomio (Ti regalerò una rosa), ma poi mica ha inserito il pilota automatico pubblicando una canzone dopo l'altra, figurarsi: è diventato eretico. Per farla breve, si è trasformato nel cantattore, ha scritto libri, prodotto documentari e spettacoli o monologhi teatrali come quello rimasto in scena fino a oggi al Carcano di Milano (torna in tour dal 12 gennaio fino ad aprile) con uno spettacolo legato al suo omonimo libro edito da Mondadori: Il secondo figlio di Dio - Vita, morte e misteri di David Lazzaretti, l'ultimo eretico. Guarda il caso. In camerino, Cristicchi, che è serafico e ispirato, ha una testa di capelli come Branduardi e sul tavolino tiene una grossa foto proprio di Lazzaretti con un cero acceso sotto, spiega che «i miei libri e le mie canzoni nascono affondando le scarpe nelle storie». Storie nascoste. O storie che per tanti è stato meglio nascondere, come quella di Magazzino 18 sulle foibe, spettacolo vincente e convincente che ha convinto anche tanti «talebani» a contestarlo. Romano, neanche quarantenne, Cristicchi è un caso più unico che raro, non è un polemista ma scatena polemica, insomma un investigatore vagabondo che stavolta si è fermato sul Monte Amiata dove nella seconda metà dell'Ottocento un barrocciaio (Lazzaretti, appunto) fondò la chiesa giurisdavidica, fu sostenuto da Pio IX e Don Bosco ma finì sotto le pistolettate di un carabiniere. Era il 1878. «Aveva un carisma che trascinava le masse: se il socialismo è fallito perché camminava con una gamba sola, lui è riuscito a dare alla sua gente anche il lato spirituale», spiega senza accalorarsi perché la sua forza è la «terzietà», raccontare le storie senza diventarne giudice, senza scendere in campo e indossare una maglia. Dopotutto, sorride sotto il casco di capelli, «sono un osservatore esterno».

Un osservatore molto curioso.

«Su Lazzaretti ci sono pochi libri, uno dei quali, ormai fuori catalogo, è quello di Arrigo Petacco: Il Cristo dell'Amiata. Ma nella sua terra si festeggia ancora il 14 agosto come il giorno in cui fu annunciata una nuova era».

A occhio e croce, la storia sembra però quella di un esaltato.

«Le perizie hanno escluso la sua follia, e la diagnosi che ne fece Lombroso era la stessa che fece di San Francesco: Un mattoide affetto da mania religiosa. In realtà Lazzaretti era la strana via di mezzo tra una persona razionale e un visionario che invocava una convivenza come nelle prime comunità cristiane. Molti lo consideravano un pazzo sovversivo ma, tra la Toscana e la Sabina, conquistò il popolo e anche nobili, intellettuali, prelati... Negli anni Settanta il Pci organizzò spettacoli e conferenze dedicati a lui, ma poi tutto finì lì».

Cristicchi, anche le sue opere corrono spesso sulla sottile linea rossa della follia.

«Reciterei Pirandello, ma non sarei credibile. L'istinto mi porta a percorrere altre strade mie personali».

Allora vede che è un eretico?

«Sono un restauratore di memorie».

Come quella delle foibe e dell'esodo giuliano-dalmata di Magazzino 18?

«Per alcuni la storia non ha sfumature e quello spettacolo ha incrociato i talebani, quelli che non capiscono che tra le pieghe della storia ci sono dolori mai raccontati».

È stato molto attaccato e insultato.

«Quando hanno iniziato a insultarmi sui social ho continuato a rispondere che ero in buona fede. Poi si sono mossi gli antagonisti, gli anarchici, le teste calde dei centri sociali che spaccano le città. Mi ha deluso molto la posizione dell'Anpi. Nell'Anpi, l'Associazione nazionale partigiani, ci sono tante anime, anche quella che ritiene fascisti tutti gli istriani».

Fatto sta che Magazzino 18 è stato uno dei pochi spettacoli teatrali recenti ad andare in scena «sotto scorta».

«E mi è dispiaciuto per i poliziotti e la Digos che dovevano presidiare temendo contestazioni. Infatti, quando non c'erano pericoli in vista, li invitavo in sala a godersi lo spettacolo».

Ha avuto 210 repliche con quasi duecentomila spettatori.

«In Toscana soltanto una, per dire, mentre in Veneto trenta e in Friuli- Venezia Giulia non so più quante. Quando mi contestarono a Firenze, il sindaco Renzi mi telefonò garantendomi che in futuro avrei potuto avere il più grande teatro cittadino per tutte le repliche che avrei voluto fare. Però pochi giorni dopo è diventato premier e tutto è passato nel dimenticatoio».

Ma il pubblico non si è dimenticato...

«No, e ora percepisco così tanto affetto che non potrei più tornare indietro. Ma all'inizio non è stato per nulla facile».

Perché?

«Perché proprio dopo il successo del mio brano Meno male (quello con il ritornello su Carla Bruni, ndr) sono andato nei teatri con il mio monologo sulla ritirata in Russia, ispirata dalla storia di mio nonno (Mio nonno è morto in guerra, ndr). Le sale erano mezzo vuote e, senza paragoni, mi è capitato un po' come capitò a Giorgio Gaber quando cambiò registro delle sue opere».

Il pubblico italiano spesso è molto rigido.

«Non solo il pubblico. Confesso che non ricevere alcuna recensione dai critici italiani per tre o quattro anni mi ha fatto soffrire molto. Per capirci, Masolino D'Amico mi ha recensito per la prima volta solo quest'anno dopo l'allestimento del Secondo figlio di Dio a Cividale del Friuli. E ancora una parte dei teatri stabili italiani per me è chiusa, specialmente in Umbria e nelle Marche».

Pregiudizi?

«Non lo so, forse vogliono soltanto commedie od opere sperimentali e non cercano il teatro civile».

A proposito, lei ha firmato anche Le marocchinate. Altra memoria smagnetizzata della nostra storia recente.

«Ha presente l'episodio del film La ciociara con Sophia Loren violentata? Le marocchinate, monologo con Ariele Vincenti che lo porta in scena, parla della violenza delle truppe marocchine dopo aver sfondato la Linea Gustav nella seconda guerra mondiale».

Anche qui a parlare è un «terzo».

«Un pastore ciociaro che sposò una marocchinata, emarginata dalla sua gente perché non più vergine e forse infetta, e racconta la vita con lei che trascorreva il tempo a pulire perché si sentiva sempre sporca».

Ostacoleranno anche questo spettacolo?

«Non so, ha appena esordito e aspettiamo proposte».

E lei cosa aspetta dal suo futuro?

«Ho un sogno nel cassetto: portare in scena Canale Mussolini di Pennacchi, che mi ha pure incoraggiato a farlo. Poi una pièce per far ridere le persone, è un mio desiderio nascosto sa? E infine, chissà, magari torno pure al Festival di Sanremo...

».

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