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Sono stata umiliata per il mio lavoro

La nostra cronista racconta l'incubo: "I militari hanno invaso casa e frugato ovunque". Poi l'umiliazione: "Mi hanno fatta denudare, la donna indossava i guanti in lattice..."

Sono stata umiliata per il mio lavoro

Roma - «Mia moglie dorme». «Mi faccia entrare in camera da letto». Sono state queste fra­si dietro la porta, a svegliarmi poco prima delle nove. Non riuscivo proprio a capi­re. Davanti ai miei occhi, nella penom­bra, c’era una donna con la divisa dei ca­rabinieri. E dietro di lei, altri quattro colle­ghi dell’Arma.

«Che succede?», ho chiesto proiettando­mi fuori dalle lenzuola. «Abbiamo un or­dine di perquisizione della Procura di Roma», mi hanno risposto. «Mi posso lavare la faccia?». È cominciata così una gior­nata da «non» dimenticare. Dunque, con tutta la mia fa­miglia mezzo stravolta intor­no, mi sono vista presentare il decreto di perquisizione, firmato dalla pm romana Sil­via Sereni. Disponeva di cer­care sia a casa mia che nella redazione del Giornale atti di procedimenti disciplinari del Csm «oggetto del reato». E cioè abuso d’ufficio. Dal documento risultava che non ero io a essere inda­gata, ma la mia presunta fon­te (sul nome c’era un omis­sis ). Naturalmente, ho subi­to pensato all’articolo scritto sulla questione di Ilda Boc­cassini, ma non c’erano rife­rimenti. Prima di iniziare, i carabi­nieri mi hanno concesso di chiamare il mio legale. L’ho fatto, ma c’è voluta un’ora e mezzo prima che l’avvocato arrivasse. Intanto, hanno in­cominciato a rovistare nei cassetti della biancheria di mia figlia Ludovica. Fa la pra­ti­cante avvocato e doveva an­dare allo studio. «Vuoi che re­sti io, per darti appoggio lega­le? », mi ha chiesto un po’ sconvolta un po’ scherzosa. Ma una volta che i carabinie­ri hanno controllati i suoi li­bri, gioielli e vestiti le ho det­to di andare, che me la sarei cavata. Le ore passavano. «Ci dia i documenti, così la finiamo qui: dove li ha nascosti?». Ho risposto: «Non ce li ho. Quel­lo che fate è inutile». A un certo punto, mi han­no detto che dovevano fare anche la perquisizione «per­sonale ». Non volevo capire, ma mi sono preoccupata se­riamente quando ho visto la donna carabiniere indossa­re i guanti di lattice. Mi ha fatto entrare in un ba­gno e mi ha detto di spogliar­mi. Mi sono tolta i vestiti. «Anche la biancheria inti­ma ». Non volevo crederci. «Non penserete che nascon­do documenti segreti nelle mutande? Manco fossi una delinquente... », è stata la mia flebile e inutile protesta. Rivedevo certe sgradevoli scene di film sui trafficanti di droga. Forse potevo oppormi, ma in quel momento ero troppo confusa. Comunque, mi è sembrato davvero troppo. Intanto, i colleghi dell’Ar­ma sequestravano il mio computer portatile, una se­rie di agende e fogli sparsi che, chissà perché, a loro sembravano sospetti. Il fatto è che dove trovava­no scritto «Csm», si allarma­vano. Hai voglia a spiegare che da 15 anni mi occupo di giustizia al Giornale e sono accreditata al Csm, quindi gran parte di quello che fac­cio per lavoro riguarda il Con­siglio. L’avvocato si è opposto ai sequestri e allora il tenente colonnello ha chiamato col cellulare la pm per chiedere conferma. Lei ha detto di por­tare via tutto. Loro, sempre gentili ma fermi, sono andati avanti. «Eseguiamo gli ordi­ni ». Mio figlio Matteo, stu­dente universitario, si è di­sperato quando si è visto to­gliere il suo adorato compu­ter. Ha protestato che era personale e io non lo usavo mai, nemmeno conoscevo la password per accedervi, fi­gurarsi. Ma alla fine ha dovu­to staccare lui stesso i fili e consegnarlo. Per cercare di riaverlo appena possibile, più tardi è venuto al coman­do dei carabinieri per far mettere a verbale tutto que­sto. Però, ci hanno anticipa­to che se va bene lo rivedrà tra almeno una settimana. In mezzo alle mazze da golf di mio marito non han­no trovato nulla, neppure negli album di fotografie in libreria e tra i prodotti da trucco in bagno. Ma non ba­stava. La perquisizione è prose­guita in cantina e poi in ognuna delle nostre tre mac­chine. Naturalmente, nep­pure l’ombra del corpo del reato. Finito a casa, mi hanno detto di seguirli al Giornale , dove un sesto carabiniere aveva già notificato il decre­to del pm al capo della reda­zione. Poco prima di mezzogior­no, seconda perquisizione e nuovo sequestro, questa vol­ta del mio computer al Gior­nale , insieme a un’altra agenda e ad altre carte (asso­lutamente ininfluenti, cerca­vo di spiegare). Ancora non era finita, mal­grado a questo punto comin­ciassi a essere esausta. La ter­za tappa è stata al comando dell’Arma di via in Selci, per stendere un dettagliato ver­bale e catalogare tutti gli og­getti sequestrati. Altre ore, altro stress. Tra l’altro erava­mo in una stanza della sezio­ne omicidi, piena di faldoni sul ritrovamento di corpi car­bonizzati e vari casi di assas­sinii. E mi sentivo sempre più fuori posto. Possibile che tutto questo succedesse proprio a me? E per che cosa poi? L’avvocato continuava a opporsi e a cercare di limita­re i danni, ma si scontrava contro un muro inflessibile. Gli ordini del pm, prima di tutto. «Noi eseguiamo», dice­vano, quasi scusandosi, i ca­rabinieri. Sono uscita alle 16, finalmente libera . E appena fuori, mi sono accesa una si­garetta.

Peccato, da tre mesi ero riuscita a smettere.

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