Cultura e Spettacoli

Come sopravvivere alla mania dei «Survival»

Pazzi che attraversano l'Amazzonia
mangiando serpenti, camionisti su strade di
ghiaccio, tipi muscolosi che vanno a molestare
le tribù africane. La nuova frontiera del
docu-reality porta il telespettatore verso le
emozioni «forti»

Matteo Sacchi
Mettiamo che un telespettatore qualunque, sdraiato sul suo divano, inizi a dar segni di nervosismo, sia affetto da una qualche impellenza di movimento. Che sebbene dotato di regolamentari infradito e ciotola di sgranocchiosi pop corn, mentre scanala sul telecomando con ritmo regolare, abbia l'idea che in fondo la vita è avventura.
Sì certo, anche andare al frigo per prendere altre tre birre per lenire la calura estiva gli sembra una prova fisica immane, eppure una vocina nella sua anima continua a sussurrare: «Il tuo destino manifesto è quello di attraversare la giungla amazzonica in velocipede o, almeno, sfidare a strega comanda colore i cannibali di Papua Nuova Guinea».
Di fronte a un simile rovello interiore che mina il benessere delle migliori menti dell'Occidente, gli autori tivù hanno subito pensato di porre rimedio. Se le forze del telespettatore non sono sufficienti a farlo sopravvivere a un trekking di due ore al Parco dei dinosauri di Bereguardo, l'avventura deve raggiungerlo direttamente in salotto e con dolby surround. E mica in formato hollywoodiano, pieno di inutili effetti speciali, ma nel formato del docu-reality.
Ecco spiegata la selva di titoli, di serie e mini serie, che ci sono piombate addosso e che hanno come tema di fondo le vicende di un qualche disgraziato che, sua sponte, si fa paracadutare nella più schifosa delle giungle armato solo di un temperino, oppure di un qualche camionista che trasporti carichi da sessanta tonnellate su un sottile strato di ghiaccio artico che galleggia sulle profondità marine, oppure ancora le performance di un gruppo di ragazzoni muscolosi che decidano di mettersi alla prova con gli sport estremi delle popolazioni più sperdute del mondo, col risultato di farsi saccagnare di botte. È bastato questo a far diventare la programmazione delle una volta seriose reti del National Geographic o di History Chanell tutta un survival.
Il leader indiscusso del genere è l'inglese Edward Michael Grylls detto «bear». Nel suo Ultimate survival (in italia la serie si chiama L'ultimo sopravvissuto e imperversa sul Discovery Channel ma i «contributi» di Grylls sono visibili anche all'interno del programma Wild su Italia 1) si aggira per giungle, deserti, savane in cui si piazza sul groppone di poveri indigeni obbligandoli a insegnargli improbabili tecniche di caccia all'istrice. Anzi, già che c'è, mentre un povero cameraman per stargli dietro quasi annega per seguirlo in mezzo alle mangrovie (se c'è un genio della sopravvivenza è quel poveraccio con la telecamera sulla groppa) magari sventra un serpente e se lo mangia, oppure accoppa qualche povera iguana che stava a farsi gli affari suoi, almeno sin che «Bear» non ha deciso di tirarle il collo per intrattenere il pubblico.
E se di fronte a questo spettacolo demente vi viene il dubbio che almeno possa insegnarvi qualcosa sul come affrontare situazioni di «emergenza» vera: scordatevelo. Se date una scorsa al Sunday Times del 22 luglio 2007 Grylls venne accusato di aver girato le immagini al cardiopalma delle sue avventure su un'isola deserta alle Hawaii non lontano da un comodissimo albergo... Alla fine la produzione di Channel 4 ha dovuto ammettere l'incidente. Stessa storia per le mirabili scene in cui riesce a domare dei cavalli selvaggi: erano mansueti quadrupedi affittati in una stazione di trekking (così almeno non ha potuto ammazzarli e mangiarli). Ma in fondo i «fake», le falsificazioni, sono meglio delle imbecillate vere inventate dal padre del «naturalismo» estremo, quello Steve Irwin che insisteva per ficcare le mani in bocca a qualsiasi predatore a partire dai coccodrilli. Prima rischiò il dramma mettendosi a dar da mangiare a un alligatore con in braccio su figlio Bob di appena un mese, poi andò a girare un documentario nell'artico a causa del quale fu accusato di aver recato gravi e inutili molestie alla fauna locale, alla fine una razza lo ha ucciso durante un'immersione ficcandogli un aculeo acuminato in mezzo al cuore. Una bella morte in diretta.
Non va tanto meglio nemmeno in The Real Fight Club prodotto dal National Geographic e trasmessa in Italia da Nat Geo adventure. Qui nessuno rompe le scatole a bestie, pacifiche o meno, ma un branco di giovanotti robusti parte da casa per mettersi alla prova con i rituali di lotta di alcune popolazioni isolate. Ad esempio lo stick fighting delle popolazioni Suri in Etiopia. Si tratta di una lotta violentissima condotta a colpi di bastone alla testa (restare accecati è un'attimo) che i giovani conducono sia per procurarsi una moglie sia per stemperare le tensioni tra villaggi (quando non funziona poi si sparano). Per i Suri è un qualcosa di ancestrale, ma andarsi a ficcare in questa roba per gioco e per intrattenimento Tv è una bella idea? E raggiungere la Nuova Guinea e partecipare a una gara di canoa lunga due giorni in acque infestate da coccodrilli e squali? Meno male che, in questo caso, i pescatori indigeni, veramente gente di buona pasta, ha dato una mano a un nerboruto pompiere londinese a non restarci secco sulla barriera corallina.
Almeno quando si tratta de Gli eroi del ghiaccio (History Channel) si tratta di camionisti che sulla banchina polare ci lavorano davvero, lo stesso si dica dei boscaioli di The Ax Men (sempre History Channel). Però anche in questo caso resta il dubbio che la presenza delle telecamere peggiori drasticamente la situazione. È intrattenimento mettere in piedi una gara a chi trasporta più carichi pesanti su una lastra di giaccio che ricopre un fiume o il mare artico? A l'uomo sul divano e con il telecomando l'ardua sentenza.

Ah dimenticavamo, ha già risposto di sì, del resto lui è un eroe.

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