Politica

Soru, il miliardario vestito da povero che si è fatto (del male) da solo

Doveva essere il sinistro che come Berlusconi «si è fatto da solo». Del male. Doveva essere quello che avrebbe scalato il Pd: e invece non solo è rimasto al piano terra, ma adesso sta facendo venir giù tutto il condominio. «Noi non cederemo la Sardegna gratis», diceva alla vigilia del voto: chi l’avrebbe detto che il prezzo da pagare era la poltrona di Veltroni.
Comunque, quando si dice la lungimiranza: la capacità di far di conto del feudatario sardo sta tutta nel precisissimo calcolo di qualche giorno fa. Stretto nella giacca di velluto come i poveri pastori del Gennargentu, il plurimiliardario stella nascente e già cadente della sinistra giurava sul Filu ferru: «Sono avanti a Cappellacci di ben otto punti». Come no. Evidentemente si trattava dei punti del Mulino Bianco, vista la disfatta. Fulminante come il titolo del Riformista: «Salutami a Soru». E con lui non crolla solo un governatore. Non crollano solo le azioni Tiscali, peraltro già pesantemente al ribasso con in groppa 250 licenziamenti. No. Con questa Waterloo a sorpresa colui che passa per «antipatico genio» subisce la sorte peggiore che può capitare agli antipatici geni: risultare antipatici e basta. E questo stando alle opinioni di chi lo conosce bene: «Un pescecane travestito da spigola», lo disegna con paragone marittimo Giovanni Valentini, che con lui ha lavorato a stretto contatto. E Giampaolo Pansa tira giù il carico: «È una vera, strepitosa carogna, cattivo, scostante, autoritario, diffidente, con quell’accento da Brigata Sassari che fa tremare tutti». Così lo vedono a sinistra; figurati a destra. La luminosa carriera di Mister Tiscali nella galassia dei progressisti italiani finisce in un pugno di malloreddus alla sassarese. «Se batto Berlusconi faccio come Prodi, vinco alle politiche». Risultato? Sta facendo come Prodi ma senza battere Berlusconi. Passerà alla storia come l’imprenditore dalle lunghe vedute, ma balisticamente sfocate: voleva impallinare il Cavaliere, e infilzò Veltroni. E se stesso.
Così finisce la parabola del ragazzo di Sanluri, figlio di un proprietario di supermarket, che provò a laurearsi alla Bocconi e non ci riuscì. Tentò il colpo nel settore alimentare, poi immobiliare, ma senza risultati. Conosce il finanziere cagliaritano Nicola Grauso, scopre la new economy, e poi la politica, la regione, bramando Palazzo Chigi. A chi gli proponeva l’eredità di Veltroni, rispondeva: «Non so, vedremo». Il magnate del telefono aveva tutti i requisiti per il grande salto: amicizie trasversali, il gradimento di Confindustria, e una certa capacità di sintesi tra i capibastone del Pd. E poi quell’arroganza alla Mourinho che finché vinci fa tanto figo, ma quando retrocedi è un disastro. Con il nemico, poi, condivideva la passione imprenditoriale (anche se Soru non si è mai laureato). Una passione mai trasferita al governo della regione, visto che la Sardegna è oggi la terra più indebitata d’Italia, 190mila disoccupati, con un Pil lumaca che cresce più lentamente di quello nazionale. Finirà negli annali per la tassa sul lusso, quell’imposta sugli yacht che fece surriscaldare il pareo di Flavio Briatore. Finirà nei sussidiari per aver paralizzato l’edilizia regionale col suo piano paesaggistico che vietava la costruzione di qualsiasi casa fino a tre chilometri dalla costa. E quando gli alleati in consiglio regionale si sono rifiutati di approvargli il piano, si è dimesso, certo della rielezione.
Del resto, che il buon «Surei», come lo chiamano sull’isola, non ami le critiche, lo si è visto. Lo si è notato dalle pennellate agiografiche con cui viene dipinto dal quotidiano che si è comprato: «Sorrisi pochissimi, parole elargite con grande parsimonia, con pause, lunghe, eleganza sobria», questa è la prosa da Vanity Fair con cui l’Unità coccola il suo editore. E ancora: «Parla accorato, suda, rifiuta l’acqua, ma non il fazzoletto... il velluto prugna della giacca è perfino troppo per questa stanza stipata e calda». Ci manca solo che guarisca lo storpio e resusciti Lazzaro, e amen. Gavino Sanna, il pubblicitario che lo ha abbandonato per via del suo fare «scontroso», non ha pietà: «Soru adesso non porta la cravatta, un padrone vestito da servo è una vigliaccata verso la povera gente». Certo, la santificazione su carta dell’Unità ha fatto sobbalzare il già citato Valentini: «Gramsci si starà rotolando nella tomba. È come se Scalfari sapesse che la sua Repubblica l'avesse comprata Ricucci». Ma si tratta d’un’operazione d’immagine funzionale ai suoi scopi: che non sono quelli di starsene in riva al Mediterraneo ad aggiustare le cose, bensì di sbarcare sul continente a cercar gloria. Sogni infranti. Proprio perché ambiva alla poltrona veltroniana, ha sempre individuato in Berlusconi, e non in Cappellacci, il suo avversario sul territorio: contribuendo così a scavarsi la fossa. Com’è stato scritto, il più lesto a capire che aria tirava è stato Carlo De Benedetti. Il quale, socio di Soru, a tre settimane dal voto ha ritirato la sua partecipazione in Tiscali dal 6 al 2%. Forse il principe sardo, sotto sotto, era in odore di disarcionamento, chissà. Diceva l’altro ieri sul palco: «Una sconfitta non è per sempre».

Si era dimenticato di aggiungere la postilla: la vittoria, al momento, non è in agenda.

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