Cultura e Spettacoli

Ma questo Hobbit è un videogame

La terza e ultima parte della saga di Peter Jackson è adrenalinica e sfrutta al meglio la tecnologia

Ma questo Hobbit è un videogame

Meglio lasciare a casa il capolavoro scritto da J.R.R. Tolkien, se si va a vedere Lo Hobbit. La battaglia delle Cinque Armate (dal 17 dicembre), terzo capitolo della trilogia firmato dal premio Oscar Peter Jackson. E sedersi comodi in sala (2 ore e 20), con gli occhialini 3D, senza pensare alla filologia.

Perché stavolta il regista si discosta come mai prima dal testo originale, prendendosi la libertà creativa necessaria a raccontarci l'epica conclusione delle avventure di Bilbo Baggins (Martin Freeman), Thorin Scudodiquercia (Richard Armitage) e della Compagnia dei Nani, in salsa giochi di ruolo. Si salta sulle rocce, gli Elfi zompano a terra, scivolando sulle lance dei compagni di lotta e spade, frecce, scimitarre volano come nel videogame. La scena iniziale è coinvolgente: il drago Smaug, sembianze e scaglie di coccodrillo rosso fuoco - il colore viene da un paio di stivali rossi da cowboy scovati online dal supervisore agli effetti visivi Eric Saindon -, semina l'Apocalisse sulle teste degli abitanti di Pontelagolungo, distruggendo tutto con il suo alito letale. Un sentore di morte aleggia sul fiume color bronzo, mentre intorno il paesaggio si carbonizza. Bard l'Arciere (Luke Evans), padre vedovo con tre figli, incocca la sua freccia nera letale, appoggiandosi sulla spalla destra del figlio maschio Bain: il mostro viene abbattuto e papà diventa una figura paterna per tutti gli abitanti della città.

Uno dei fili conduttori dello Hobbit è il concetto di «casa» e di famiglia: qui, quando Bilbo torna nel suo buco da hobbit sotto la Collina, mentre lo credevano morto e i vicini gli portano via i mobili, la prima cosa che fa è sistemare i quadri di mamma e papà sulla parete. Il senso di appartenenza al territorio riguarda anche Thorin, re guerriero che brandisce la spada dei nani recuperata dall'armeria di Erebor per difendere la Montagna Solitaria, forziere di monete d'oro, troppo somigliante al forziere di Paperon de' Paperoni. La bramosia di Thorin («non mi staccherò da una sola moneta»), lo sta però perdendo e qui emerge un altro tema portante del fantasy spettacolare: l'avidità di possesso è una malattia dell'umanità. La Montagna potrebbe essere la tomba di Elfi, Orchi e Stregoni e delle razze, in generale. Sul mondo s'avventa qualcosa di terrificante, è il messaggio attuale e l'oro ne è causa. Intanto, Galadriel, l'elfica Cate Blanchett, si esibisce in un sortilegio medianico impressionante, vestita di paillettes luminose, mentre Christopher Lee alza le sopracciglia da perfetto Stregone Bianco.

Le 48 telecamere di Jackson, che le chiama per nome («una si chiama Bill, come mio padre») si vedono tutte, mentre la Terra di Mezzo è esplorata sotto il profilo della natura: alberi lucenti, morbidi musi di alci-cavalli, una troika di leprotti e una gemma d'inestimabile valore. Si tratta dell'Arkengemma, per il cui possesso si scatena la battaglia dei cinque eserciti, la parte più sostanziosa del film. Tolkien non dimenticò mai d'appartenere a una generazione decimata durante la Grande Guerra. Non a caso il 2014, anno in cui Peter Jackson sforna la sua cruciale Battaglia delle Cinque Armate , segna il centenario della prima guerra mondiale.

Dopo tredici anni e sei film, finisce qui l'epopea della Terra di Mezzo, con una storia del tutto diversa.

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