Cultura e Spettacoli

L'autentico bluesman che con il napoletano ha conquistato il mondo

Da "Napule è" fino al concerto con Clapton: l'eredità di Pino Daniele, che nelle vie della sua città ha trovato la bussola della musica globale

L'autentico bluesman che con il napoletano ha conquistato il mondo

Tu dimmi quando quando. Pino Daniele se lo chiedeva ogni benedetto giorno da oltre vent'anni per quel maledetto cuore malato. Però lui chi lo fermava, è stato fino all'ultimo lo stesso ragazzo introverso e un po' ruvido che all'inizio suonava per Bobby Solo e Gianni Nazzaro e che nel 1976 James Senese volle, fortissimamente volle nei suoi Napoli Centrale. Però il posto da chitarrista era già occupato e quindi Pino corse a comprarsi un basso per studiarselo in poche ore e chissenefrega se i soldi erano pochi e, per di più, erano scalati dal compenso di Senese. Insieme suonarono in tre dischi (l'omonimo del 1979, Nero a metà del 1980 e Vai mo' dell'81), creando con altri mostri come Tullio De Piscopo, Joe Amoruso, Tony Esposito e Rino Zurzolo, un suono che ce lo scordiamo anche oggi: intenso, sensuale, virtuoso, meticcio. C'era di tutto, lì dentro, dalla ricerca linguistica (in Donna Cuncetta c'è quell'«alluccate pe' dispiett'» che è una perla rara) al macramè sonoro fino all'ironia fine, quasi impalpabile di Je so' pazzo , autentico inno di una generazione.

Lui tutto questo popo' di suoni lo chiamava «tarumbo», neologismo inventato chissà come e chissà dove per indicare l'amplesso furioso e inedito di tarantella e blues, quella cosa che ai giornalisti piaceva riassumere con «Neapolitan power», grinta napoletana, perché nessuno se l'aspettava che da lì, dalla terra della sceneggiata e dei piezz'e core, potesse sgorgare quella lava sonora. Su tutto, oltre alla sua voce acuta e malinconica, ci metteva una chitarra calda e sofisticata, riconoscibile quasi fosse Santana, pungente negli assoli che brillavano non per velocità ma per la forte, personalissima sequenzialità delle scale. Era soprattutto un chitarrista, Pino Daniele, e lo era anche quando cantava come ha mostrato nella sua ultima esibizione a Capodanno, usando la melodia vocale come accompagnamento e sostegno degli accordi sulla tastiera. Un dono. Un dono che voleva andare oltre i limiti fisici, oltre il cuore pesto, la vista claudicante, la paura di non farcela. «Oggi è sabato, meno male», anche oggi ce l'abbiamo fatta e forse l'ha pensato pure l'altra sera finché non ha sentito quella fitta. In tutto questo tempo Pino Daniele è diventato il musicista più aperto e matrimoniale d'Italia, ha fatto sposare la lingua napoletana ai suoni blues e mediterranei diventando un bluesman senza frontiere sin da quando, fianco a fianco con l'esuberanza creativa di Edoardo Bennato, aveva frantumato le barriere melodrammatiche della canzone napoletana per globalizzarla, farla diventare un gene della musica mondiale.

E ci è riuscito, a giudicare dalle collaborazioni clamorose di questi anni, dall'album Bonne soirèe del 1987, nel quale oltre a lui suonava soltanto un altro musicista italiano (il tastierista Bruno Illiano) e gli altri erano Mel Collins oppure il percussionista dei Weather Report o il batterista di Peter Gabriel. Poi certo ci sono stati milioni di copie vendute in Italia, i dischi da primo posto in classifica fisso e le canzoni che, d'estate o d'inverno, hanno accompagnato questi anni strani, dalle colonne sonore dei film dell'amico Troisi (il verso che gli piaceva di più era quel «E vivrò, sì vivrò tutto il giorno per vederti andar via» di Quando che è poi paradossalmente diventato il biglietto da visita della loro malattia) ai pezzi funambolici e irridenti come 'O scarrafone che mescolavano lo sghignazzo sui luoghi comuni (la nebbia, i Pooh, l'immigrazione), la polemica politica (il famoso «questa Lega è una vergogna») e quelle frasi che sono stampate nella memoria dei ragazzi di allora: «Oggi è sabato e domani non si va scuola». E proprio questa trasversalità imprevedibile, il virtuosismo acustico, la maniacalità nella produzione (chiedete a Giorgia, che nel 1997 si fece produrre il disco Mangio troppa cioccolata ) e la scontrosità innata sono diventate il suo passaporto per l'eternità.

Dopotutto se la curva del San Paolo manda a memoria Napule è (che era il lato B de Na tazzulella 'e cafè del 1977) vuol dire che Pino Daniele si è insinuato sottopelle, è ormai parte della musica italiana in quel ramo bastardo che è un via vai di tendenze, di sonorità, di culture straniere. Perciò Pino Daniele era sempre un evento quando arrivava sul palco. Lo è stato nei concerti da solo fino all'ultimo al Forum di Milano, giusto poco prima di Natale. E lo è stato insieme ad altri, a De Gregori o Mannoia o Ron oppure nei duetti come quelli con un giovanissimo Eros Ramazzotti (commosso fino alle lacrime per la sua morte) con Jovanotti, persino con Pavarotti o Eric Clapton tre anni fa a Cava de' Tirreni quando una strofa del capolavoro Wonderful tonight divenne addirittura italiana: «Anche i tuoi occhi...».

In fondo solo un musicista nato in via San Giovanni Maggiore dei Pignatelli a Napoli quando Napoli usciva dalla baraonda del Dopoguerra avrebbe potuto diventare il crocevia della musica nera, ossia della musica vagabonda che in valigia si porta il caldo e la disperazione. E poco importa che negli ultimi anni Pino Daniele abbia seguito un binario parallelo, più votato alla ricerca e allo studio e meno al mainstream (ad esempio Electric Jam ), tenendosi lontano volente o nolente dalla ritualità discografica.

È diventato un «brand», un marchio che distingue il prima dal dopo e che ha sempre avuto una naturale, magari dolorosa, sicuramente sofferta idiosincrasia per il luogo comune, per le certezze, per quelle vite e quelle musiche nelle quali non c'è mai un punto interrogativo e c'è sempre la risposta quando si chiede tu dimmi quando quando.

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