Cultura e Spettacoli

"Assedio a Corinto": brutta regia, musica esaltante

"Assedio a Corinto": brutta regia, musica esaltante

Nel sempre più celebrato mondo dei fornelli trionfa la cucina destrutturata. Rivisitare vecchie ricette separando gli ingredienti alla ricerca di nuove «consonanze». Lo stesso possiamo dire di buona parte degli attuali allestimenti operistici dove gli elementi costitutivi tendono a separarsi, rendendo l'amalgama fra regia e musica simile alla difficile emulsione fra olio e aceto. Una considerazione, quella della «destrutturazione», che si poteva applicare perfettamente alla messa in scena dell'Assedio di Corinto (eseguito nella versione integrale originale in lingua francese, Le Siège de Corinthe), tragedia lirica in tre atti che ha aperto l'edizione 2017 del Rossini Opera Festival.

Il regista Carlus Padrissa ha fatto tabula rasa di qualunque riferimento al tempo pensato dagli Autori in un empito filoellenico che sosteneva la lotta d'indipendenza greca dall'Impero ottomano (evitando il tema doloroso e scottante dello scontro fra cristiani e «spada musulmana»). Siamo in un pianeta arso, dove ognuno si aggira in tuta di ciniglia maculata: ogni tanto inquietanti ritratti di pseudo aborigeni scendono a evocare criptici significati filosofici (autrice di costumi, quadri e video enigmi è Lita Cabellut). Coriste Eumenidi, coristi ninja-camouflage reggono flaconi d'acqua semivuoti durante e dopo la stupenda sinfonia. Azzardiamo un'ipotesi: durante i raffinati ballabili (dove non si balla) otto mimi imitano una rissa involontariamente grottesca: si vuole alludere al declino delle risorse e a un futuro di guerre idriche? Quanto questo abbia attinenza con Corinto, Greci e musulmani, con Maometto II innamorato della bella greca Pamyra, non è dato sapere. Anche nell'impeccabile programma di sala nessun lume, ci si consola con i due informatissimi saggi di Giovanni Carli Ballola e Damien Colas, i quali parlano di un'opera che non si vede. Ma, per fortuna, che si sente. Non erano pochi fra il pubblico europeo in sala (i rossiniani d'Italia, Francia, Germania, Inghilterra e Commonwealth, Giappone, a Pesaro realizzano da anni una sorta di Società delle Nazioni lirica) a operare una netta separazione fra rimbrotti al regista e giuste lodi al versante musicale. A partire dalla direzione musicale di Roberto Abbado - coadiuvato dall'Orchestra nazionale della Rai e dal volenteroso coro piceno del Teatro Ventidio Basso con rinforzi parmigiani. Direzione fervida negli esaltanti concertati, nelle bellicose strette, nelle sublimi marce e profezie, fasto musicale che dona a quest'opera quella luce neoclassica venata di riflessi romantici negata dal regista. Solisti all'altezza della competenza di Pesaro: il molto impegnato e nobile Maometto di Luca Pisaroni, la suadente (in un suo esperanto) Pamyra di Nino Machaidze, il gagliardo guerriero Néoclès di Sergej Romanovskij. Altrettanto centrati il sacerdote Hiéros di Carlo Cigni e i tre confidenti: Xavier Aduaga (Adraste), Cecilia Molinari (Ismène) e soprattutto Iurii Samoilov (Omar).

A conti fatti chi sa fare la salsa più saporita è sempre Gioachino Rossini.

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