Cultura e Spettacoli

Banksy al museo? Rivela i limiti dell'arte di strada

La pur bella esposizione romana non giova alla poetica sporca dell'inglese Scoperta: anche lui vende (e bene) ai collezionisti. Altro che «anti-sistema»

Banksy al museo? Rivela i limiti dell'arte di strada

«Guerra, capitalismo e libertà». Sono questi i temi su cui è impostata la mostra-evento di Banksy, che apre oggi al Palazzo Cipolla di Roma, curata da Stefano Antonelli, Francesca Mezzano e Acoris Andipa, il dealer che detiene il maggior numero di opere del misterioso artista di Bristol. Si tratta della prima esposizione personale in uno spazio museale italiano, promossa da Fondazione Terzo Pilastro e dal suo presidente Emmanuele Emanuele.

L'impresa non è certo semplice, a cominciare dal fatto che Banksy non risulta coinvolto in nessun modo: i lavori, per condivisibile scelta curatoriale, non sono stati presi dalla strada ma provengono unicamente da collezioni private, a conferma del fatto che esiste un mercato, e anche abbastanza florido, di un personaggio che invece vorrebbe svincolarsi da qualsiasi genere di compravendita e far parlare di sé per le proprie mirabolanti imprese, a cominciare dall'identità celata dietro il nick name che lo ha reso un mito, soprattutto per le giovani generazioni.

Suona dunque come un po' contraddittorio questo allestimento così pulito, per certi versi sacrale, di un artista dal linguaggio sporco, contaminato, borderline, la cui poetica all'interno di un palazzo aulico appare meno incisiva rispetto al contesto urbano da dove proviene. L'operazione dunque è soprattutto didattica, ben confezionata e ricca di spunti, eppure c'è il rischio che la forza corrosiva di Banksy si riduca a una più semplice illustrazione di concetti, resi con il suo segno grafico particolare e le immagini immediatamente riconoscibili.

La scelta dei soggetti è assolutamente completa e ben organizzata attorno ai tre filoni proposti: ci sono le scimmie minacciose che avvisano Laugh Now But One Day I'll Be in Charge (Ridete ora, ma un giorno saremo noi a comandare), i topi che infestano le metropoli, le scene di guerra, lo sberleffo al potere, la contestazione al dio denaro, la filosofia del «produci, consuma, crepa», la politica, i bambini, Kate Moss «trattata» come una Marilyn tanto da far parlare, giustamente, di Banksy come l'Andy Warhol del terzo millennio. E scopriamo una certa varierà di supporti su cui l'artista lavora, le rare pitture su tele tra cui un inedito autoritratto, le serigrafie, gli stencil, frammenti di installazioni, le oltre 40 copertine di dischi, per esempio la miliare Think Thank dei Blur.

I cacciatori di identikit, che proprio non ci stanno a non sapere chi in realtà egli sia, sono sempre più convinti che c'entri qualcosa tal Robin Gunningham, un artista anche lui di Bristol. Ipotesi probabile ma non certa, uno dei tanti misteri che attraversa la cultura pop come gli indizi sulla morte di Paul McCartney. La leggenda che si è costruita attorno a lui lo vuole nato nel 1974. Dalla prima mostra del 2000, Banksy ha privilegiato azioni improvvise e repentine, sul modello di una guerriglia urbana fortunatamente pacifica e qualche volta pericolosa, ai limiti della legalità, come quando dipinse sulla striscia di Gaza nel 2009, oppure il progetto di «occupare» New York per un mese, facendo vendere provocatoriamente e senza avviso alcune sue opere sulle bancarelle a 60 dollari, fino all'operazione più mediatica, ovvero il parco cupo e depresso di Dismaland, le cui strutture alla fine sono state trasferite a Calais per ospitare i rifugiati.

Da Banksy in avanti la Street Art, esplosa negli anni '80 con il successo di Basquiat ed Haring, ha compiuto la propria definitiva mutazione genetica, uscendo dalla pittura muraria, dalla tag (segno urbano per eccellenza) sposando altresì linguaggi contemporanei e temi attuali, vicini alla cronaca più che alla storia. Oltre alle differenze di carattere tecnico e linguistico, ciò che oggi resta del graffitismo di un tempo è un sistema di segni complesso e articolato, un mix tra cultura pop e politica alternativa. C'è chi pensa, non a torto, che sia rimasto l'unico genere artistico atto a veicolare contenuti scomodi e, soprattutto, il solo a parlare allaa popolazione giovane. Seppur «controculturale» Banksy si muove come una piccola industria che magari non riesce a controllare tutto ciò che si produce sotto il suo nome, ma che allo stesso tempo sfrutta la popolarità a macchia d'olio che gli reca la moltiplicazione degli oggetti. Un autore che insomma supera la condizione autoriale, tipica della cultura occidentale, salvo poi riutilizzarla al bisogno.

C'è una linea che parte da Warhol e si evolve in Koons e in Murakami, dove Banksy trova perfetta collocazione, ibridandola giusto con un pizzico di cultura militante. E infatti, per questa caratteristica, dentro un museo la sua arte finisce per soffrire un po', perdere l'impatto che provoca quando te la trovi di fronte all'improvviso.

La verità è che senza sistema non esiste l'arte.

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