Cultura e Spettacoli

Bergonzi, l'eleganza in scena Il tenore che sublimò Verdi

L'ultima grande voce del Novecento aveva interpretato tutte le opere del compositore Girò il mondo e divenne famoso grazie a una tecnica poi diventata modello per tutti

Bergonzi, l'eleganza in scena Il tenore che sublimò Verdi

Dagli auguri per il suo novantesimo compleanno al necrologio sono passati poco più di dieci giorni. La cruda e dolorosa notizia della morte di Carlo Bergonzi apre un gran vuoto, non solo negli suoi affetti più vicini, ma nelle legioni di ammiratori che in ogni angolo del mondo hanno applaudito l'arte del suo canto e la rettitudine della persona. Un tenore che aveva iniziato come baritono e soltanto nel 1950 (tre anni dopo il suo debutto in un teatro parrocchiale come Figaro a Varedo vicino Milano) decise di passare al registro tenorile. Il suo nome rimane indissolubilmente legato alle opere di Giuseppe Verdi (pur avendo sontuosamente indossato i panni di quasi tutti i ruoli pucciniani e aver dato lustro alla Lucia e all' Elisir d'amore di Donizetti), anche per ragioni native - nacque a Vidalenzo nel 1924 a un tiro di schioppo da Busseto.

In occasione del compleanno stilammo un catalogo delle parti verdiane sostenute, nell'ordine in cui le aveva affrontate a partire dal cinquantenario della morte di Verdi, nel quale affrontò l'eroico patrizio genovese, Gabriele Adorno nel Simòn Boccanegra . Non mancavano «ruoli» molto impegnativi, sia da tenore lirico che da drammatico: Don Alvaro ( Forza del Destino ), Riccardo ( Un ballo in maschera ), Don Carlo, Radamès ( Aida ), Manrico ( Trovatore ), Alfredo ( Traviata ), il Duca di Mantova ( Rigoletto ), Ernani, Rodolfo ( Luisa Miller ). Se a questi ruoli aggiungiamo quelli affrontati in sala di registrazione, si arriva alla totalità delle opere di Verdi. Le interpretò in tutti i più importanti teatri del mondo, dal Metropolitan di New York al Covent Garden di Londra alla Scala all'Opera di Vienna. E fu diretto dai grandi maestri del Novecento, da von Karajan a Georges Prêtre a Leonard Bernstein, Gianandrea Gavazzeni, Dimitri Mitropoulos fino a Riccardo Muti e Lorin Maazel. A trasformarlo in un'icona fu anche il suo carattere leale e sanguigno: nel 1959 al Regio di Parma, durante una recita dell' Aida , nel corso del terzo atto cantò la frase «Il ciel dei nostri amori» con un Si bemolle acuto pianissimo. Un loggionista gli urlò «Tajoli!!», quasi paragonandolo a un cantante di musica leggera. Bergonzi salì dai suoi concittadini del loggione, spartito alla mano, per spiegare le ragioni della propria scelta. Insomma, un grande interprete di grande temperamento che, non per nulla, divise il palco con le più grandi soprano dell'epoca, dalla Callas alla Tebaldi, dalla Simionato alla Caballé, da Marilyn Scotto a Raina Kabaivanska, con l'unica eccezione in Mirella Freni.

Nel 1974 Bergonzi, accompagnato da Nello Santi, incise 31 arie verdiane, partendo dall'Oberto, conte di San Bonifacio e finendo con il Sonetto del Falstaff. A quella data, la voce di Bergonzi era ancora integra. E fu così per molto tempo fino al 1995, quando si ritirò dopo una serie di concerti a Vienna, a New York, alla Scala e a Parigi. Da allora si è dedicato per lo più all'insegnamento, sicuro di esser destinato a passare alla storia.

Vi sono ragioni prettamente stilistiche che hanno reso Verdi e Bergonzi un binomio indissolubile. A partire dal modo di cantare: sano, aperto, schietto, frutto di una tecnica di fiati e di una sapienza nel far girare i suoni che è diventata modello. Altro fattore non meno decisivo la dizione: scolpita, articolata in un declamato non retorico, il più possibile «naturale». Bergonzi faceva parte di quell'eletta schiera di interpreti dei quali non si ammiravano soltanto i «pezzi chiusi» (le arie o le cabalette), ma tutto, recitativi compresi, affinché la definizione del personaggio fosse la più completa possibile. Non si può dimenticare il recitativo sublime, «Oh fede negar potessi», che precede la famosa aria «Quando le sere al placido» ( Luisa Miller ).

Verso il suo esempio si sono mossi tanti colleghi della chiave di tenore, a partire da un conterraneo, il modenese Luciano Pavarotti, che non ha mai fatto mistero della sua ammirazione (ricambiata) per il più anziano collega.

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