Cultura e Spettacoli

"Quello che fa l'Isis in Siria è l'Auschwitz della cultura"

Trent'anni fa scoprì l'antica città di Urkesh. Ora torna lì, dove il fanatismo jihadista vuole cancellare la Storia

"Quello che fa l'Isis in Siria è l'Auschwitz della cultura"

«È iniziato trent'anni fa ed è stato un viaggio alle origini della civiltà. Oggi dopo sei anni di guerra e distruzioni è un viaggio nell'Auschwitz della cultura, la nuova Auschwitz disegnata dalla barbarie del sedicente Stato Islamico. Ma a fronte di questo orrore esiste anche la resistenza, la reazione, forte quanto misurata, della Siria vera. La Siria dei colleghi del Direttorato generale delle antichità e dei musei che continuano a lavorare con grande calore umano e serietà professionale». Il professor Giorgio Buccellati, l'archeologo italiano dell' Ucla, l'Università della California, scopritore dell'antica città di Urkesh nella Siria nord-orientale, racconta così il suo ritorno, ai primi di dicembre, in questo Paese. Un Paese dove le meraviglie del passato fanno i conti non solo con una guerra spietata, ma con la violenza e il fanatismo di chi vuole cancellare la storia e imporre un nuovo oscurantismo religioso nel nome dell'Islam più fanatico e intollerante. Un oscurantismo che Giorgio Buccellati considera, a conti fatti, assai più pericoloso e minaccioso di quel regime di Bashar Assad dipinto da molti europei come altrettanto pernicioso. «Siamo arrivati a Damasco proprio mentre s'incrociavano da una parte la notizia della ripresa di Aleppo riconquistata dalle forze governative, e dall'altra quelle di Palmira ricaduta sotto il giogo dell'Isis. Sono rimasto molto colpito dall'atteggiamento dei colleghi siriani, dalla loro capacità di contrapporre una sfida tranquilla a una sfida forsennata. In loro non c'era né isteria, né euforia, ma soltanto il continuo richiamo alla necessità di far fronte con coraggio e determinazione alla violenza insensata, appoggiandosi a quella forza interiore che viene dalla fede nei valori veri, i valori della cultura del passato».

Quando parla di passato Giorgio Buccellati difficilmente può essere contraddetto. Di quel passato lui e sua moglie Marilyn Kelly, anche lei docente e archeologa della Ucla, sono due tra i grandi esploratori. Quando arrivano in Siria, nel 1984, la città di Urkesh è solo un'eco della storia, un mito senza conferme. Giorgio e Marylin in trent'anni di lavoro trasformano quel mito in certezza. Grazie alle loro ricerche e ai loro scavi nel sito di Tell Mozan, la terra siriana restituisce uno dei bozzoli della civiltà, una città fondata quattromila anni fa dal popolo Hurrita, uno dei primi insediamento urbani conosciuti. «La prima grande novità - ricorda Buccellati - fu la scoperta del palazzo reale e l'identificazione del sito con l'antica Urkesh. Non era cosa da poco. Riportare alla luce quel palazzo databile intorno al 2250 a.C. significava confermare l'esistenza di una civiltà nota, fino ad allora, solo attraverso la letteratura e la storia mitologica». Da quel momento il viaggio a ritroso di Giorgio e Marilyn non si ferma più. In tre decenni scavalcano i secoli, solcano i limiti tra mito e storia. Come quando scoprono una fossa lunga otto metri e profonda sette costruita in pietra e perfettamente preservata. «Era una fossa necromantica, l'unica che sia mai stata ritrovata. Lì venivano evocati gli spiriti degli inferi per ottenerne responsi e vaticini». Un luogo identico, insomma, a quello in cui, secondo la Bibbia, la strega di Endor interpellata da re Saoul evoca lo spirito di Samuele. «Ma poi continua Buccellati - siamo andati ancora più indietro. Abbiano scoperto l'angolo di un edificio databile al 3500, un edificio che confermerebbe come la storia di Urkesh e degli Hurriti coincida con la nascita delle città e dell'urbanesimo. Lì però ci siamo dovuti fermare». A bloccare il viaggio nel tempo di Buccellati e sua moglie arriva nel 2011 la guerra civile. I viaggi di Giorgio e Marilyn s'interrompono, ma la separazione è solo fisica. Mese dopo mese, anno dopo anno i due archeologi continuano a mantenersi in contatto con gli assistenti siriani rimasti a vegliare sugli scavi di Tell Mozan, a preservarli dalle intemperie, a difenderli dalle razzie. «In questi cinque anni abbiamo non solo preservato il sito, ma anche a garantito il lavoro e il fabbisogno economico della ventina di assistenti rimasti intorno agli scavi. Ma non lo facciamo solo per essere sicuri di ritrovare i nostri lavori. Lo facciamo anche per contrapporci alla strategia del sedicente Stato Islamico. Parlando di quei terroristi io parlo sempre di Auschwitz della cultura, e non si tratta di un'iperbole. I militanti dell'Isis non vogliono solo distruggere una nazione, ma tutte le coordinate culturali che garantiscono la sua identità e quella del suo popolo. È una forma di distruzione molto più perversa, radicale e pervasiva di quella causata dalle semplici bombe. L'Isis con queste azioni non punta solo a sconfiggere l'avversario, punta ad annientarne e cancellarne l'identità».

Per questo - sfidando anche le polemiche di chi li accusa di collaborare con il governo di Bashar Assad - Giorgio Buccellati e sua moglie non solo mantengono i contatti con i sovraintendenti culturali del governo siriano, ma hanno anche accettato l'invito a tornare a incontrarli a Damasco. «Due anni fa avevamo portato una mostra sugli scavi Tell Mozan al Meeting di Rimini invitando tre sovraintendenti siriani. Il sovraintendente della provincia di Qamishli, dove si trova il nostro sito, è rimasto colpito e ha deciso di far girare la mostra in tutto il suo territorio. Da allora mi diverto sempre a contrapporre i furgoni dei nostri dipendenti carichi di pannelli fotografici alle colonne armate dell'Isis. Queste ultime girano seminando morte e distruzione e cercando di cancellare l'identità e le memorie della Siria, i nostri ricordano a tutti gli abitanti della zona le loro radici storiche e culturali. Sono radici che si perdono nei tempi della storia e non devono venir cancellate.

Solo preservandole annulleremo il messaggio di morte dei terroristi salveremo la cultura e vinceremo la nostra battaglia».

Commenti