Cultura e Spettacoli

Cinquant'anni di rock. Da ribellione e sogni alla nostalgia canaglia

Nel 1966 Beatles, Rolling Stones e Beach Boys dettavano le regole Oggi le vendite dei vecchi dischi superano quelle delle novità

Cinquant'anni di rock. Da ribellione e sogni alla nostalgia canaglia

In effetti sono volati via. Letteralmente. Cinquant'anni che hanno cambiato la pelle del rock, lo hanno rovesciato come un guanto e ora ne lasciano le tracce più polverose e nostalgiche. Occhio al calendario: il 15 aprile del 1966 i Rolling Stones pubblicavano Aftermath, non certo il loro miglior album (dal vivo eseguono talvolta solo Under my thumb) ma senza dubbio l'apripista di un anno che ha cambiato il mondo. Il 16 maggio Bob Dylan pubblicò Blonde on blonde e i Beach Boys il fondamentale Pet sounds. Revolver dei Beatles uscì il 5 agosto (per capirci Eleanor Rigby e Yellow Submarine erano in scaletta) e nei primi giorni di gennaio '67 i Doors debuttarono il loro disco capolavoro registrato nelle settimane precedenti. Il rock era un messaggio di ribellione che ha indubbiamente aiutato a cambiare tutto, ossia musica, costume e politica. Una sberla durata circa dieci anni fino a rigonfiarsi nel progressive come la rana di Fedro, destinata a scoppiare come ogni manierismo. Infatti è arrivata la distruzione, ossia il punk, con New York Dolls e Sex Pistols come testimonial nichilisti e Ramones come geometri del suono e ideologi dei testi.

Neanche Steve Jobs ha rivoluzionato qualcosa con la stessa velocità di quanto questi quattro scalcinati rockettari con la frangia siano riusciti a fare con il rock, asciugando le partiture, focalizzando gli argomenti, creando insomma uno stilema basico sul quale ricostruire altri suoni. E la storia, se ci fate caso, andava di pari passo. A fine anni Settanta inizio Ottanta in Italia finivano gli anni di piombo in Italia, la «reaganomics» cambiava gli assetti economici, la Guerra Fredda iniziava realmente a raffreddarsi. Era tempo di elettronica e romanticismo talvolta chirurgico (Depeche Mode), talvolta cupo (The Cure, Siouxsie And The Banshees), talvolta adolescente e modaiolo (Duran e Spandau ovviamente). Ma l'epoca dei dandy fu subito mangiata da quella degli yuppies e dei Gordon Gekko giusto per il tempo necessario a far esplodere il rock più colorato di sempre, e anche rumoroso. Tra la fine degli anni '80 e l'inizio dei '90 l'apoteosi dei Guns N'Roses fece tabula rasa così tanto da per far spazio alla depressione poetica del grunge, ai Nirvana, agli Alice in Chains, agli Stone Temple Pilots o ai primi Pearl Jam, tutti destinati a farsi piallare dal rap, prima gangsta e poi hip hop infine addirittura r&b ma comunque alla fine reso asettico dalla bulimia di denaro e di luoghi comuni. L'«uscita dal ghetto» dei rappers ha costretto gran parte del rock a rientrare nei ranghi, a serrare le fila a mantenere le posizioni.

E ora?

Siamo nella fase vintage. Per i quaranta/cinquantenni è il momento della riscoperta e non è un caso che le vendite dei dischi di catalogo (ossia quelli pubblicati in passato) abbia superato quella delle novità. E per i giovani/giovanissimi è la fase della semplice scoperta grazie alle playlist delle piattaforme streaming che indirizzano gli adolescenti verso titoli lontanissimi nel tempo. Aumentandone le vendite oltre ogni legittima previsione. A rendere vivace l'esplorazione del passato è il richiamo enfatico di ciò che il rock ha rappresentato in cinque decenni: la ribellione, il manierismo, la distruzione, l'eleganza, la grande depressione. Oggi, nel mare magnum di proposte, i generi si stanno amalgamando, anzi si sono così tanto mescolati da essersi cancellati. A cinquant'anni da Blonde on Blonde o Revolver siamo nella terra di nessuno. Il rock celebra se stesso con quantità di pubblico stellare (vedasi Rolling Stones a Cuba) ma non si muove da dove è arrivato. È uno stallo. Forse il momento giusto per ripartire.

Oppure per chiudere una fase forse per sempre.

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