Cultura e Spettacoli

Furto in tutte le librerie italiane sparita la saggistica (quella vera)

di Andrea Caterini

Di sabato mattina mi sveglia il ringhio del citofono; immagino qualche parente in visita e invece è un corriere che mi consegna due libri acquistati su Amazon. Di sabato! Un'efficienza mai vista e neppure sperata. Sono due saggi: uno di Miguel de Beistegui, Proust e la gioia (pubblicato nel 2013 da ETS), uno studio filosofico sulla Recherche di grande intelligenza; l'altro un classico, ovvero Le pietre di Venezia di John Ruskin nell'edizione Bur del 2016. Aprendo il pacco mi ricordo che sono due libri cercati in libreria, ma invano. Non sono poi così vecchi, ma mi domando se siano mai finiti negli scaffali di una Feltrinelli o di una Mondadori. Ormai la considerazione è sempre la stessa: cosa vai a fare in libreria se non trovi mai ciò che cerchi? Se ciò che cerchi non è l'ultima novità di varia, si tratti del romanzetto italiano di cui tutti parlano o dell'ultimo (anche se quando ti decidi a comprarlo è già il penultimo) Montalbano di Camilleri? Domandi un libro di filosofia e ti rifilano Scalfari; uno di storia e ti propongono Cazzullo. Nelle librerie italiane è scomparso - in maniera irreversibile - il settore della saggistica. Per questo a un lettore che desidera leggere un saggio restano tre possibilità: riparare nelle librerie online o in quelle dell'usato, o tentare la fortuna nei mercatini. Ovviamente ci sono le biblioteche, ma il discorso sarebbe diverso. Sembra una questione meramente di mercato ma si tratta di un problema culturale. Quello che è scomparso in verità è un pensiero critico. Si dice (lo dicono le leggi di mercato) che l'approfondimento spaventi, che i lettori abbiano bisogno della divulgazione, di uno strumento che semplifichi la complessità, che la renda accessibile, alla portata di chiunque. E allora gli editori cosa fanno per restare in piedi, per non perdere anche l'acquirente più pigro? Estromettono dai loro cataloghi lo studio preferendogli un surrogato, il racconto. Tutto deve essere tradotto in una narrazione: la pubblicità è un racconto, la politica o è storytelling o non è... che lo siano dunque anche la storia, la filosofia, la fisica, la matematica. I lettori sono come gli elettori. L'importante è che non si costruiscano un pensiero critico, che non si sforzino di domandarsi se quel libro valga la pena acquistarlo o no, così come non debbano domandarsi chi valga la pena votare. Portiamoli all'acquisto (o al voto) agendo sul loro istinto e mai sul loro intelletto. Ma facciamo un passo indietro. Chi sono i lettori, a quale mercato facciamo riferimento quando parliamo di loro? L'espressione «lettori forti» non ha senso. C'è chi ama approfondire e chi compra un libro al mese, o ogni due, o un libro l'anno. Ma ogni lettore vero è consapevole che non esiste approfondimento fuori da uno studio, fuori da un pensiero critico, cioè escludendo dalle sue letture una ricerca. Il mercato, e i social, hanno prodotto la più grande delle illusioni: che chiunque, pur non possedendo gli strumenti per farlo, possa avere un'opinione, esprimersi su qualsivoglia argomento. Qual è la colpa, il peccato originale? Dare al lettore l'illusione di sapere senza sforzo alcuno; fargli credere che il gusto è un concetto assolutamente soggettivo e non, come invece è o dovrebbe essere, una valutazione estetica per mezzo di una capacità di giudizio acquisita nel tempo e con grande applicazione (anche perché per leggere un saggio bisogna abituarsi alla concentrazione, cosa di cui si fa sempre più spesso volentieri a meno, credendo che la facile reperibilità di un'informazione basti a colmare ogni lacuna). Gli editori, e i librai di conseguenza (ma potremmo anche invertire i ruoli e il discorso non cambierebbe, perché il mercato lo costruiscono insieme), per raggiungere il più alto numero possibile di acquirenti (chiamiamoli col loro vero nome!) hanno rinunciato alla sostanza del loro mestiere: offrire, a chi ha la curiosità e la volontà di cercarlo e sceglierlo, il sapere di chi ha dedicato anni ad approfondire la sua ricerca. Agli studiosi si chiede invece di avvicinarsi al lettore, di parlargli più confidenzialmente. Ma non sarebbe più sano (del resto è così che una civiltà si costruisce, si edifica) chiedere uno sforzo maggiore di approfondimento a chi legge? Forse si perderà per strada una bella fetta di mercato... Sarà poi vero? O il mercato langue proprio perché la proposta è troppo omologata? Comunque sia una prospettiva culturale è inevitabilmente a lungo termine.

A forza di rincorrere ciò che si pensa debba vendere (e poi comunque non vende) stiamo diventando tutti più scemi.

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